La negoziazione in mediazione: le trappole cognitive

Terzo appuntamento con Silvia Pinto: le trappole cognitive

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Ben ritrovata Avvocata Pinto. Nelle interviste precedenti abbiamo parlato di come il mediatore accompagni le parti ad ampliare il tavolo del negoziato, passando da un approccio negoziale di tipo distributivo ad uno di tipo integrativo e di come in tal modo si modifichino le dinamiche di interazione, potenziando la capacità negoziale di ciascuno.
Un lavoro complesso per il mediatore, che deve possedere solide consapevolezze in merito alle attitudini negoziali dei singoli e al loro dispiegamento sulla linea del negoziato.
I negoziatori possono poi incorrere in insidiose trappole che minano la buona riuscita del negoziato, le così dette trappole cognitive: quali sono e con quali strumenti il mediatore aiuta le parti a superarle?

Le trappole cognitive sono dei meccanismi, per così dire, automatici che influenzano la rappresentazione del negoziato.

1) L’overconfidence consiste nella sottovalutazione dell’altro in quanto è considerato una controparte. Significa assumere, in modo non del tutto verificato, che le proprie valutazioni siano più valide e che la propria condotta sarà più efficace, omettendo di condurre un’analisi comparativa con le potenzialità espresse dall’altro. Ciò può limitare il negoziato, con effetti negativi per la parte che si trova in questa condizione.
2) L’effetto ancoraggio si verifica quando i negoziatori esprimono il loro punto di apertura. L’offerta iniziale diventa un punto di riferimento che influenza tutto il negoziato. L’attività negoziale che segue alla manifestazione della posizione iniziale tende ad ancorarsi al primo valore che è stato espresso al tavolo negoziale. Per questo motivo il mediatore ha cura di verificare la plausibilità del punto di apertura iniziale ed, in caso di incertezza, propone alla parte di valutarne una possibile revisione, con l’effetto di riancorare la negoziazione ad un valore diverso ed auspicabilmente più appropriato.
3) L’effetto endowment risiede nella diversa percezione che suscita fare una concessione, rispetto a quella provocata dal riceverla. Quando si fa una concessione, si percepisce il dolore della perdita o della rinuncia di ciò che è nostro. Si fa fatica a rinunciare a qualcosa che già si possiede, in cambio di qualcos’altro. Se la parte si rappresenta il negoziato in termini di perdita, sarà più propensa a rischiarne la rottura. Se la rappresentazione del negoziato è posta in termini di guadagno, la parte sarà più propensa a concluderlo positivamente. Questo comporta che il mediatore si rivolga alla parte che formula una concessione, manifestandole riconoscimento per la disponibilità mostrata ed è il motivo per cui il mediatore inquadra la concessione, descrivendone anche gli effetti positivi che la parte, facendola, perseguirebbe ovvero il suo guadagno.
4) L’effetto dei cosiddetti costi affondati o sunk costs, per cui il negoziatore persiste in una determinata posizione, per il fatto di aver già speso o investito in quella scelta, sottovalutando le conseguenze ulteriori che la sua azione avrà nella determinazione dei costi futuri. Per affrontare il dolore percepito dalla perdita già subita, si ripete ciò che ha causato la perdita richiamandosi, erroneamente, alla coerenza con se stessi. Uno dei compiti del mediatore è stimolare la parte che manifesta questo atteggiamento a valutarne le conseguenze e il significato, rafforzando le motivazioni che possono indurre a modificare la condotta fino ad ora perseguita.
5) La disponibilità mnestica consiste nella consapevolezza che il negoziatore può non avere sempre disponibili nella memoria tutte le informazioni che sono emerse nel corso della mediazione. Il mediatore ha il ruolo di ricordarle e di renderle disponibili, in modo che le parti possano valutare correttamente le diverse proposte alternative, le priorità ed i costi associati ad ognuna di esse. Il ruolo di facilitatore sul punto si esplica, molto efficacemente, usando una lavagna a fogli mobili, su cui segnare le informazioni e condividere, tra tutti gli interessati, gli effetti conseguenti ad una visione collegiale. Infatti, succede spesso che da una parola o da una frase riportata sulla lavagna ne sia generata un’altra, con un effetto chiarificatore e con uno spontaneo senso di coesione che abbassano la tensione negativa e conflittuale. Ciò che è stato riportato sulla lavagna è considerato da tutti come il frutto dell’attività condivisa e meritevole di considerazione come tale; le parti si liberano così dalla percezione di essere avversarie e agiscono quali persone che affrontano un comune problema, cercando di risolverlo. Spesso al termine di un incontro di mediazione ed in vista di quello successivo, le parti fotografano la lavagna, per conservare il senso tangibile e condiviso della mediazione in atto.

In conclusione
Insieme all’Avvocata Pinto abbiamo visto come la relazione negoziale sia multiforme, ma cristallizabile in modelli ricorrenti e riconoscibili e come il mediatore, una volta interiorizzate le competenze necessarie, possa guidare le parti a riformulare le regole del gioco degli interessi e ad adottare le strategie più efficaci per il raggiungimento di un accordo soddisfacente per tutti.
L’accordo che soddisfa tutti è l’accordo che ha la più alta probabilità di essere eseguito con successo.

Leggi l’intervista precedente