di Riccardo Maggioni*
Nel “contratto per il governo del cambiamento”, oltre a occuparsi del rapporto tra negoziazione assistita e mediazione oggetto del mio precedente intervento , in tema di A.D.R. nel processo civile l’attuale maggioranza parlamentare giallo-verde propone “…nel caso la richiesta di esperimento della mediazione avvenga da parte del giudice a causa già iniziata (c.d. mediazione delegata), che questa possa avvenire solo su richiesta concorde delle parti e non sia dunque obbligatoria” (vd. la redazione definitiva del contratto in data 18 maggio 2018, a pag. 24).
In buona sostanza e al di là del giro di parole con cui viene formulata, la suddetta previsione programmatica mira ad abolire tout court l’istituto della mediazione delegata che era stato introdotto dal D. Lgs. 28/2010 in tema di mediazione civile e commerciale, il cui art. 5 co.2 recita in particolare: “… il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello.”
E’ del tutto ovvio infatti che le parti, ove ne ravvisino concordemente l’opportunità, ai sensi dell’art. 2 della disciplina succitata possono promuovere in via congiunta una mediazione volontaria in qualunque momento, anche in pendenza di giudizio, laddove l’accordo di governo finisce per porsi quale obiettivo esclusivamente l’abolizione della possibilità per il giudice di inviare le parti in mediazione, anche nell’ipotesi in cui gli sviluppi della causa lo abbiano convinto in merito all’utilità dell’intervento del mediatore, nel caso sottopostogli.
Tale impostazione della maggioranza governativa non sembra tenere così in alcun conto che la mediazione delegata costituisce uno strumento utile alla migliore e più efficiente gestione delle controversie quando il giudice, esercitando il proprio prudente apprezzamento durante la trattazione della causa, si sia formato il convincimento che una decisione d’autorità non appare la soluzione più adatta al soddisfacimento degli effettivi interessi in gioco.
Sul piano sistematico non va poi dimenticato che oggi, accanto all’istituto della mediazione delegata, l’art. 185 bis c.p.c. prevede altresì che il giudice possa formulare alle parti con ampia discrezionalità una propria proposta “transattiva o conciliativa”, anche prima di avere istruito la causa e con l’espressa precisazione che non potrà venire ricusato per tale proposta.
Entrambi i suddetti istituti, espressione del principio che non tutte le controversie devono necessariamente concludersi con sentenza, assolvono invero a un importante compito di razionalizzazione del contenzioso, nell’interesse generale.
Fermo restando quanto sopra va peraltro evidenziato che la mediazione delegata e la proposta conciliativa del giudice, pur perseguendo entrambe soluzioni consensuali suscettibili di porre fine al contenzioso senza bisogno di una decisione autoritativa, si pongono in prospettive tra loro non coincidenti, rispondendo a esigenze non del tutto sovrapponibili.
E infatti la proposta conciliativa ai sensi dell’art. 185 bis c.p.c. viene formulata sul presupposto di un’anticipazione del giudizio alla luce degli elementi noti al giudicante e indica ai litiganti una soluzione compromissoria sulla base di una stima – verosimilmente al ribasso – intorno al possibile esito della causa allo stato degli atti.
Nella mediazione invece le parti, assistite dai rispettivi legali, vengono aiutate dal mediatore quale terzo indipendente, imparziale e neutrale, a comunicare tra loro e mettere a fuoco i rispettivi interessi sostanziali al di là delle posizioni giuridiche, nella prospettiva di raggiungere un accordo consensuale che soddisfi tali interessi più di quanto potrebbe farlo una sentenza.
In una divisione ereditaria ad esempio, attraverso un accordo consensuale raggiunto in mediazione le parti possono ottenere beni determinati, il che non sarebbe invece possibile nell’ambito di una divisione giudiziale, nella quale il Tribunale dovrebbe necessariamente disporre il sorteggio con la conseguente alea nell’assegnazione dei lotti.
Più in generale, l’intervento del mediatore può far emergere esigenze disomogenee e complementari delle parti, che si prestano quindi a essere composte in un accordo consensuale.
Per semplificare al massimo ciò potrebbe accadere ad esempio quando, attraverso l’esplorazione degli effettivi interessi, un contenzioso condominiale sorto riguardo alla contestata possibilità di lasciare biciclette in cortile venga risolto autorizzando a tenere piante di gerani sui balconi, in modo da rendere superflui tre gradi di giudizio per avere una sentenza definitiva sulla regola di condotta oggetto di contestazione.
Il mediatore incoraggia così le parti a generare ed esplorare opzioni alternative che non avrebbero alcun senso in un giudizio ove il Tribunale dovrà necessariamente pronunciarsi in punto di diritto, per rispondere alle specifiche domande di cui è stato investito in tema di applicazione delle norme di legge.
Nella ricerca della soluzione “su misura” che la mediazione consente di perseguire, poi, spesso diventa rilevante la conoscenza di fatti non dedotti dai difensori nella causa, perché irrilevanti o addirittura controproducenti sotto il profilo del diritto, ma che possono risultare importanti per una soluzione conciliativa e venire presi utilmente in considerazione nell’ambito di un procedimento di mediazione, anche attesa la natura riservata di tale procedimento.
In particolare, sulla base della cd. “riservatezza interna” ciascuna parte può far presente in sede separata al mediatore fatti e circostanze che, pur non rivelate all’altra parte, al mediatore stesso faranno acquisire quella conoscenza a “trecentosessanta gradi” degli interessi in gioco che consentirà di imbastire un accordo reciprocamente vantaggioso per le parti, al di là di quello che potrebbe venire proposto dal giudice allo stato degli atti.
Ne consegue che la mediazione delegata di cui all’art. 5 co.2 del D. Lgs. 28/2010 va mantenuta perché costituisce una utile opzione offerta al giudice per la gestione del processo, valorizzando altresì l’apporto dei difensori per il raggiungimento in concreto di quell’accordo consensuale verso cui le parti possono essere state indirizzate, cosicché tale attività rientra a pieno titolo nella cd. ‘‘giurisdizione forense’’, autorevolmente intesa come “attitudine dell’avvocatura a intervenire con i mezzi offerti dalla normativa vigente per la definizione delle liti…” (R. Danovi, Il declino del processo e la ‘‘giurisdizione forense”, La Rivista del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano, 2015, 64 ss.).
*Avvocato e Mediatore in Milano