Conciliazione obbligatoria e conciliazione volontaria

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Il modello originario di conciliazione che abbiamo importato dai Paesi anglosassoni, ove da tempo viene sperimentato con risultati  incoraggianti, si basa sulla volontarietà dello strumento.

La volontarietà consiste nella libertà della parti di scegliere se ricorrere a questo strumento per risolvere la controversia e nella  libertà di accettare l’accordo così raggiunto decidendo di sottoscriverlo, o, al contrario, di non sottoscriverlo, laddove non ritenuto soddisfacente.

La ratio di questa previsione è da ricercarsi nel fatto che la libertà delle parti, da intendersi come il potere e il controllo delle stesse sul conflitto, non possa che agevolare il raggiungimento di una soluzione condivisa e, in buona sostanza, l’esito positivo del procedimento di conciliazione. E ciò in quanto si tratta di una soluzione non imposta da un terzo ma ricercata con l’ausilio di un terzo.

Alla luce della schema di decreto legislativo del 28 ottobre 2009, le parti potranno tentare la conciliazione ogniqualvolta lo riterranno opportuno, ma dovranno obbligatoriamente tentarla in tutte materie del contenzioso civile ove rappresenterà condizione di procedibilità della domanda giudiziale, sempreché il decreto, una volta definitivo, non contenga previsioni diverse.

La volontarietà, inoltre, è stata un po’ scalfita anche per quanto riguarda la libertà dell’accordo. Se è vero, infatti, che le parti rimangono libere di accettarlo o meno, è altresì vero che possibili conseguenze fiscali cui le stesse andrebbero incontro non accettando l’accordo, potrebbero condizionarle, limitandone la libertà di scelta.

L’esempio che potrebbe offrirci un’idea concreta dei risultati che l’obbligatorietà della conciliazione ha sinora prodotto nel nostro Paese, proviene dalla conciliazione sperimentata in materia di lavoro dinanzi alle Direzioni Provinciali del Lavoro, obbligatoria a pena di improcedibilità della domanda giudiziale. E l’esperienza non sembra essere positiva. A mio avviso, tuttavia, pur svolgendosi al di fuori del giudizio, la conciliazione di diritto di lavoro ha finito con l’assumere sempre più le sembianze della conciliazione giudiziale ovvero di una formalità da esperire senza convinzione. Non mi pare, infatti, che le tecniche di conciliazione, di comunicazione e di gestione del conflitto che dovrebbero essere parte integrante del bagaglio del conciliatore vengano, in quelle sedi, applicate con eccesso di zelo posto che, nella mia esperienza, sin da subito il diniego delle parti ad un possibile accordo viene interpretato come una conciliazione negativa. E ciò senza considerare che il rifiuto a conciliare, almeno inizialmente, è abbastanza plausibile, tenuto conto degli aspetti anche emotivi generati dal conflitto che spesso impediscono alle parti di separare le persone dal problema. Sia chiaro: ciò non significa che il conciliatore debba forzare le parti per giungere in ogni modo all’accordo perché, è utile ribadirlo, il conciliatore non ha alcun potere coercitivo. Ritengo, tuttavia, che debba adoperarsi per tentare di vincere le resistenze che è lecito incontrare inizialmente dalle parti.

D’altronde la previsione di obbligatorietà della conciliazione su una così ampia parte del contenzioso civile, potrebbe avere anche il risultato di far conoscere uno strumento che in qualche modo porta con sé i pregiudizi di una conciliazione diversa, quella giudiziale ridotta ad una mera formalità, se non totalmente disapplicata. In quest’ottica, rendere obbligatoria la conciliazione stragiudiziale potrebbe contribuire a  scalfire la cultura di risoluzione giudiziale del conflitto fortemente radicata nel nostro Paese, a vantaggio di quella stragiudiziale con le positive conseguenze che ne deriverebbero, oggi largamente dibattute, di miglioramento del sistema giudiziario, e, in generale, dell’economia del Paese su cui le inefficienze della giustizia si ripercuotono inevitabilmente.

L’auspicio è che le esperienze positive della conciliazione stragiudiziale gestita, tra gli altri, da enti, quali le Camere di Commercio che, negli anni, hanno ottenuto risultati in costante crescita dimostrandone l’utilità ed efficacia, contribuiscano ad accrescerne la qualità, impedendo che la conciliazione venga ridotta al mero espletamento di una formalità ma, al contrario, valorizzandola in funzione di una più immediata e soddisfacente tutela dei consumatori e delle imprese.  

di Federica Invernizzi, Funzionario del Servizio di Conciliazione della Camera Arbitrale di Milano