
Si potrebbe dire che per assumere il ruolo di mediatore in una situazione di conflitto sia necessario un lavoro di sottrazione o, quantomeno, di sospensione. Va sospeso il giudizio, prima di ogni altra cosa, compreso il pre-giudizio, e va sospeso lo slancio di simpatia o di antipatia che istintivamente proviamo nei confronti delle parti nel momento in cui le conosciamo, confermato o meno nello svolgimento della mediazione. Chiaramente la simpatia e l’antipatia sono il prodotto del pre-giudizio; capita che, nonostante i nostri sforzi di controllare gli istinti, l’amigdala superi a gran velocità sulla corsia d’emergenza la corteccia prefrontale mediale ed ecco che ci verrebbe da sorridere comprensivi a qualcuno e da prendere a ceffoni qualcun altro. Gli istinti primordiali necessari alla sopravvivenza necessiterebbero di una messa a punto e di un aggiornamento; invece ancora guardiamo con diffidenza chi ha tratti somatici diversi dai nostri e poi ci facciamo truffare al telefono da voci tanto convincenti.
Il tema della sospensione del giudizio da parte del mediatore è centrale nel dibattito sulle caratteristiche professionali di cui lo stesso stesso deve disporre. Lo è perché il non farlo può pregiudicare seriamente l’imparzialità, requisito necessario per condurre una mediazione efficacemente e a norma di legge. L’imparzialità percepita dalle parti consente la costruzione di un rapporto di fiducia con gli interlocutori, facilita il flusso comunicativo, incoraggia la disponibilità dei confliggenti ad aprirsi e valutare nuove letture delle vicende di cui sono protagonisti.
La percezione di parzialità, viceversa, agli occhi della parte che si sente vittima trasforma il mediatore in un altro nemico contro cui misurarsi.
La parzialità può essere oggettiva, a volte persino rivendicata, come avviene quando ci si schiera politicamente o davanti a certe guerre che polarizzano la posizione di ciascuno.
Poi c’è una parzialità camuffata ma a volte non così ben nascosta al punto di arrivare ad essere percepita dall’interlocutore al quale, se è una parte nella mediazione, non viene richiesto di silenziare gli istinti e può giudicare con estrema libertà ciò che ritiene stia avvenendo davanti ai suoi occhi.
Quindi al mediatore non basta raggiungere l’obiettivo di sentirsi autenticamente imparziale: deve fare in modo che questa autenticità traspaia e le parti lo percepiscano effettivamente così.
Ha tutta l’aria di essere un’attività complessa e lo è. È di quelle che solcano la differenza tra i bravi mediatori e i mediatori incapaci.
Lo è perché giudicare fa parte della natura umana, giudicare pericolosa una persona o una situazione ci consente di sopravvivere e rinunciare a questa funzione cerebrale condannerebbe il genere umano all’estinzione (ndr: sospendo ogni giudizio su questa possibilità).
Lo è perché non c’è un interruttore che interrompa la funzione temporaneamente e la riattivi a mediazione finita. Per i mediatori più bravi c’è tuttalpiù una rotella che consente di abbassare il volume e ridurre l’interferenza del flusso a volte copioso dei giudizi che si formano durante gli incontri, davanti agli atteggiamenti assunti dalle parti e alle parole che sgorgano dalle lore bocche e da quelle dei loro avvocati spesso senza filtri.
Non meno importante della sospensione del giudizio da parte del mediatore per la riuscita della mediazione è la buona fede delle parti, l’autenticità delle istanze che ciascuna porta avanti rispetto al tema conflittuale. Dovrebbe essere un patto che le parti stringono con il mediatore quello di non inquinare il tavolo della mediazione con la malafede, di non cercare di usare il mediatore come strumento per imbrogliare l’altro.
Certo le pretese e la riscostruzione degli eventi vengono da ognuno declinate in modo tale da illuminare le proprie ragioni per apparire come i detentori della verità, da evidenziare i torti e i punti deboli della controparte e da mettere in ombra le altrui ragioni. Un tale lifting narrativo è accettato perché ritenuto naturale, sia che derivi da un convincimento radicato sia che si tratti di un espediente negoziale.
Ciò che non può essere accettata è la mistificazione consapevole della realtà e la volontà di utilizzare la mediazione quale procedura negoziale pacifica alla presenza di un facilitatore il quale, per l’imparzialità che deve dimostrare, si trova nella sgradevole situazione di sentirsi strumentalizzato e di non potersi sbilanciare ad esprimere, ahimé, un giudizio sulle istanze del malfattore.
Non può essere accettata perché la presenza della malafede condanna a morte certa la mediazione, fa venir meno ogni patto fiduciario stretto fino a quel momento, ammesso che si sia arrivati a tanto.
Come si accorge il mediatore della malafede di una delle parti?
Si accorge non solo perché glielo può dire l’altra parte – che potrebbe esserlo a sua volta – ma anche per le contraddizioni che emergono dai racconti e dalle risposte alle domande formulate, dalle stonature che gli fanno alzare le antenne.
Si accorge perché giudica, giudica gli elementi raccolti, giudica il comportamento dei suoi interlocutori, valuta le istanze di chi ha davanti.
Non ne deve fare una questione personale perché, se così fosse, si accenderebbe un conflitto che lo coinvolge e che, nell’ipotesi di minor danno, manderebbe a carte quarantotto la sua imparzialità.
La cosa più saggia, quando è impossibile ignorare contraddizioni e stonature, è lavorare in sessione separata. Non per stanare il bugiardo manipolatore e approfittatore: farlo sarebbe un sintomo della sfida personale aperta e peggio di farlo nella separata ci sarebbe solo il farlo in congiunta. Ma per accertarsi, prima di staccare i tubi dell’ossigeno e dichiarare morta la mediazione che sta conducendo, che si trovi effettivamente davanti ad un soggetto in malafede e non ci sia stato un errore di giudizio.
Insomma, alla fine per il mediatore è una corsa ad ostacoli a gestire gli input che arrivano da proprio cervello, istinti da tenere a bada con la corteccia prefrontale, ragionamenti da condire con l’intuito, desiderio di pensare che in tutti c’è del buono e ondate di pessimismo.
Non vorrei arrivare a dire che tanti anni fa trovare della malafede nelle parti era più raro di oggi. Non vorrei ma per la mia esperienza è così. Una tale disinvoltura va a braccetto con una sempre maggiore conoscenza della mediazione e del suo possibile sfruttamento per tornaconto personale. Potremmo definire questo abuso come una “mediazione temeraria”.
L’incontro con una certa frequenza con mediazioni temerarie rischia di far crescere la pianta del cinismo nell’affollato e impegnato cervello del mediatore. Il cinismo altro non è che una lente attraverso la quale si guarda la realtà e, se usato in una mediazione, ostacola la sospensione del giudizio contenendo esso stesso un giudizio.
Non è uno scenario incoraggiante; per quanto mi riguarda, nonostante l’età che avanza e il rischio concreto che, mediazione dopo mediazione, la mia fiducia nel genere umano si asciughi, voglio mantenere uno sguardo aperto e confidente sulle persone e abbracciare tutto il buono che c’è intorno a me.
Quindi scusate, ora devo andare al mio appuntamento in chat con George Clooney: ha promesso che divorzia dalla moglie Amal perché è pazzo di me e prestissimo mi farà diventare ricca con le criptovalute.