Le buone intenzioni (un caso di mediazione)

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La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni.
La frase viene attribuita a Karl Marx e non serve avere una certa età per coglierne il senso e la verità che contiene, ma aiuta.
Oggi vi parlerò di quel tratto di strada per l’inferno recentemente lastricato dalla sottoscritta mediatrice e lo farò raccontandovi il caso di mediazione durante il quale ho compiuto il mio capolavoro di edilizia libera.

Questo il conflitto: due sorelle, già orfane di padre, alla morte della madre ereditano i beni di famiglia tra cui un appartamento con mobili, quadri e gioielli. La prima – che chiameremo ADA – vuole vendere al più presto l’appartamento, la seconda – che chiameremo BEA – non è contraria ma vuole prima definire i criteri per la divisione del ricavato che tengano conto della diversa partecipazione alle spese per l’assistenza della madre negli anni in cui non era più autosufficiente, ai regali ed elargizioni dei genitori ricevute negli anni dalle sorelle in misura diversa e della sparizione di gioielli e pellicce dalla cassaforte di famiglia per la quale accusa Ada.

Se avete partecipato alla MAV (del 2023), la competizione per studenti mediatori che si tiene annualmente a Verona, potete riconoscere il caso ideato da Mario Dotti al quale dobbiamo riconoscere doti di preveggenza per la precisione con cui ha anticipato la causa di conflitto in cui mi sono imbattuta mesi dopo. L’ho riconosciuto anch’io e per tutto il primo incontro ho pensato che avrebbe potuto trattarsi di uno scherzo, soprattutto per il continuo ritornare sulla sparizione dei gioielli e le conseguenti accuse reciproche tra le sorelle. Proprio come me e Mario quando abbiamo impersonato le parti durante la competizione veronese.

Non era uno scherzo.

Ada, parte attivante che aveva fretta di vendere la casa, considerava la perdita di questi beni un effetto collaterale delle numerose badanti che si erano succedute negli anni, dichiarando che la chiave in suo possesso non apriva la cassaforte da ormai molto tempo. Bea, che racchiudeva in sé rancori di una vita che la stavano consumando, continuava imperterrita ad accusare l’altra rifiutando qualsiasi diversa ipotesi.

Osservandole in questa contrapposizione si potevano ricavare due versioni della storia: dal punto di vista di Ada, la sorella Bea aveva perso la razionalità e si era costruita una sequenza di eventi della loro vita familiare che Ada disconosceva, lamentando di non avere un’interlocutrice lucida con cui confrontarsi sulla divisione ereditaria. Dal punto di vista di Bea, Ada era un’approfittatrice priva di scrupoli, aveva manipolato i genitori per ottenere soldi e favori per tutto il corso della sua vita e questo sarebbe stato il momento per lei di rimettere le cose a posto.

La sofferenza di Bea era palpabile anche attraverso il video e si contrapponeva ad una misurata sfrontatezza di Ada che scivolava di tanto in tanto nella condiscendenza.
Si contrapponevano anche le rispettive relazioni con i loro avvocati: Ada si collegava per la mediazione insieme al suo legale con cui si dava del “tu” e c’era sintonia. Bea si collegava in autonomia e con la sua avvocata – che vestiva anche un ruolo accudente per la sua cliente – si dava del “lei”.

Su una cosa erano entrambe d’accordo: non volevano che si lavorasse sulla loro relazione non essendo interessate a riallacciare il rapporto di sorellanza, ammesso che questo rapporto ci fosse mai stato.
Poiché Bea l’aveva posta come condizione sine qua non per il proseguimento della mediazione, prima di affrontare la questione legata alla vendita dell’appartamento abbiamo lavorato su tutti i crediti che Bea asseriva di vantare per spese, anticipi, diverse elargizioni, polizze assicurative, eccetera.
Ada si era detta disponibile a riconoscere forfettariamente 10-20.000 euro alla sorella, conguagliabile con il ricavato dell’appartamento, senza entrare nel merito delle sue richieste. Poiché Bea chiedeva quasi 200.000 euro, Ada ha chiesto di vedere i conti e le pezze giustificative.

Davanti alla ritrosia di Bea, mi sono adoperata perché riconoscesse l’importanza della condivisione dei suoi calcoli, consentendo agli avvocati di lavorare insieme e trovare i punti di accordo e quelli di disaccordo per tracciare le attività da fare nei successivi incontri. È stato un lavoro paziente, incentrato su ascolto e accoglienza, premiato dalla fiducia che nei tre incontri precedenti avevo guadagnato.

Bea ha accettato la condivisione dei suoi conteggi che riguardavano costi più o meno oggettivi, come la polizza assicurativa che i genitori avevano regalato loro ma in momenti diversi e con diversi versamenti, ad altri molto forzati, come un numero consistente di scontrini del supermercato anche di 10 anni prima. Oltre, naturalmente, alla valutazione dei gioielli spariti il cui valore era imputato integralmente ad Ada. Era un castello di rivendicazioni fragilissimo e grazie a me (e alla sua avvocata) ora era sotto gli occhi di tutti.
Soprattutto sotto gli occhi di Ada e del suo avvocato che nella successiva separata hanno dichiarato che, avendo riscontrato l’estrema debolezza giuridica delle richieste, intendevano chiudere la mediazione e portare la controversia al giudice.

Le domande che mi girano nella testa su cosa avrei potuto fare di diverso, su quali errori ho commesso, mi accompagnano da qualche mese. Sono stata lo strumento per strappare il drappo che copriva le deboli pretese di Bea e disvelarne l’inconsistenza giuridica davanti alla sua avversaria. Inconsistenti erano e inconsistenti sarebbero comunque state anche se svelate in un tribunale. Ma la situazione che si è creata davanti ai miei occhi ha spazzato via le incertezze e i timori di Ada nonché puntellato la sua baldanza nella sfida alla sorella in giudizio. E di questo ancora me ne dispiaccio.

Per concludere il racconto: dopo che Ada ha manifestato l’intento di chiudere la mediazione, ho parlato qualche minuto da sola con l’avvocata di Bea per capire se riteneva ci fossero punti di forza nella posizione della sua cliente e quale grado di consapevolezza avesse dei punti deboli. Da professionista seria, aveva chiaro lo scenario che si sarebbe aperto in tribunale ed era sinceramente dispiaciuta per la sofferenza che la sua assistita si portava dentro. Così, d’accordo con lei, ho fatto un’ultima separata con Bea un po’ inusuale. Attingendo alla mia preparazione di counselor e di mediatrice familiare le ho regalato, quasi fosse un modo per me di risarcirla, una mezzora di seduta di counseling volta a raccogliere e ad accogliere questa sofferenza.

La morale è sempre la stessa: in tante controversie se al centro non viene messa la relazione e la sua cura, anziché trovare una via di uscita si può incappare in un labirinto. Oppure sulla strada per l’inferno appena lastricata.