Noi mediatori siamo persone semplici: nuotavamo, un po’ di lustri fa, nel nostro stagno secondo uno stile che avevamo imparato osservando mediatori di altri Paesi e di tanto in tanto alzavamo la testa per vedere se qualcuno si stava accorgendo di noi. Poiché venivamo costantemente ignorati, abbiamo voluto attirare l’attenzione con la convinzione che stavamo portando un messaggio importante e che nel nostro stagno si stavano facendo cose buone.
Il nostro gracidare e il vento a favore ci ha portato una norma nel 2010 che abbiamo accolto con soddisfazione ma anche con un piglio molto critico da farci chiedere, negli anni, di più, sempre di più. Ci ha portato anche il piglio molto ma molto critico di chi al nostro stagno non si voleva proprio avvicinare; anzi, a dirla tutta l’avrebbe voluto prosciugare. Non riuscendo a prosciugarlo, invaderlo deve essere sembrata una buona idea ed è finita che, data l’alta popolosità, ne è risultata modificata la composizione dell’acqua e dell’aria.
Abbiamo, tuttavia, deciso che ne era valsa la pena, eravamo diventati tanti, nuotavamo in un lago e le cose buone che facevamo sembravano convincere chiunque le valutasse indipendentemente dal punto di vista, anche quello a noi più ostico. Era subentrata la paura di tornare nello stagno: se ci fossimo tenuti liberi e slegati – come libera e slegata è stata e dovrebbe rimanere la mediazione – saremmo stati più vulnerabili agli occhi di chi avrebbe voluto spazzarci via ma, saldando il nostro legame, avremmo tenuto lontano quel pericolo. In fondo Hobbes non aveva, poi, sbagliato.
E ora siamo qui, dopo tanto aspettare, immersi in uno strano liquido che prende il nome di “riforma Cartabia” e che tanto ci ha promesso, sfogliando un libretto di istruzioni per continuare a nuotare che pare scritto da un rospo ubriaco. È un liquido che col tempo è aumentato di livello, lambisce il nostro viso e sta cercando di sovrastarci: il diritto.
Sembra un’altra era geologica quella in cui la formazione comprendeva solo un piccolo spicchio dedicato al diritto, in cui gli aspiranti mediatori arrivavano dalle professioni più diverse, in cui l’ente di formazione proponeva spesso un proprio modello procedurale. Nell’arco dei quattordici anni dalla nascita del D.Lgs.28 le porzioni di tempo dedicate alle varie materie si è modificato, spesso si è contratto a beneficio della materia giuridica. Non è successo in modo repentino ma un po’ alla volta fino al balzo fatto fare di chi ha manovrato la riforma (il rospo ubriaco).
Abbiamo accettato, in questo lasso di tempo, che il diritto, un passo alla volta, si appropriasse del campo e occupasse ogni pertugio: abbiamo lasciato che diventasse “cosa da avvocati”. È giusto o è sbagliato? O forse sarebbe meglio chiedersi: è stata la direzione migliore da prendere?
La mia è un’opinione di cui non ho mai fatto mistero e, dopo la pubblicazione del DM 150, ne sono ancora più convinta: lasciare la mediazione in mano ai giuristi che l’hanno plasmata facendola diventare quello che è adesso è stato un errore. Tuttavia, ancora più grande è stato l’errore di non portare avanti la mediazione dal punto di vista scientifico partendo proprio dai modelli procedurali che fino al 2010 erano stati coltivati e perfezionati. Le due strade avrebbero potuto convivere e forse oggi avremmo argomenti e strumenti per non farci sopraffare.
Ma tant’è. Non sguazziamo più nello stagno e ci sembra di avere a disposizione un lago pescoso. E forse anche la riforma ha previsto delle cose buone. Prendiamo il primo incontro, ad esempio. Il “decreto del fare” ci aveva messi, come mediatori, in una posizione scomodissima: quella di dover portare, all’incontro iniziale con le parti, il nostro interesse alla prosecuzione e diventando, pertanto, noi stessi una ulteriore parte con propri obiettivi da perseguire e non da subito quel terzo imparziale – e soprattutto “neutrale”! – al servizio dei soggetti in lite. Questo obbrobrio da qualche mese non esiste più ma ci ha condizionato la vita professionale per così tanto tempo che, quando è entrato in vigore il DM 150 rendendolo remunerato, io stessa ho trovato meravigliosa quella sensazione di leggerezza e di calore che mi ha assalito dando inizio ad una procedura.
Ma… C’è sempre un “ma” quando si ha alle spalle una storia di maltrattamenti come ce l’hanno i mediatori. Ma, dicevo, mi è venuta in mente la rana bollita di Noam Chomsky – filosofo, linguista e attivista politico statunitense – come metafora dell’essere umano di adattarsi a situazioni spiacevoli e deleterie senza reagire.
(Tratto dal libro “Media e Potere” di Noam Chomsky)
“Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50°C avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone.”
Ecco, la domanda che mi sto facendo da un po’ e di cui temo la risposta è: siamo sicuri di nuotare in un lago e non in una grande pentola piena d’acqua sotto la quale hanno acceso il fuoco?