Conflitti grandi e piccoli

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di Riccardo Maggioni*

Lo scorso 11 novembre è apparso sul quotidiano La Stampa un articolo di Lucio Caracciolo, fondatore e direttore della rivista italiana di geopolitica Limes, intitolato “La mente prigioniera di Putin”.

Constatato come, dopo il tramonto delle ideologie novecentesche, l’identità sia divenuta oggi il mastice di “società tendenzialmente asociali”, l’autore aggiunge che dall’odierna “smania d’identità” scaturiscono il bisogno di riconoscimento e il risentimento che sono alla radice dei conflitti geopolitici attuali, nei quali la rivendicazione di status diventa prioritaria trasformando in conflitti di potere anche quei conflitti in cui sono in gioco consistenti interessi materiali, con la conseguenza che una soluzione pacifica e consensuale risulta preclusa a priori, se i contendenti non sono prima disposti a riconoscersi reciprocamente pari dignità.

A questo punto, il ragionamento dell’articolo si allarga dalla Russia di Putin e dal suo risentimento per non essere riconosciuta come potenza imperiale, alla Cina di Xi Jinping e alle sue aspirazioni a ritornare ai presunti fasti del passato, da un canto, e dall’altro all’America desiderosa di mantenere lo scettro di Numero Uno acquisito alla fine della Seconda guerra mondiale e che sente oggi sfuggirle di mano.

Mi pare che le autorevoli osservazioni ricordate, ancorché proposte al livello generale e macroscopico della geopolitica, offrano degli interessanti spunti di riflessione altresì a chi si occupa di mediazione nel quotidiano.

In primo luogo, come è noto ma è sempre utile ricordare, la stessa mediazione che oggi si pratica quotidianamente nasce da una vicenda di rilievo geopolitico e cioè dall’esperienza di due accademici – R. Fisher e W. Ury – quali consulenti del Presidente americano Jimmy Carter che aveva promosso il negoziato cd. di “Camp David”.

Ad esito di tale negoziato, dopo dodici giorni di intensa trattativa con la mediazione americana, il 17 settembre 1978 vennero firmati dal presidente egiziano Anwar al-Sadat e dal Primo Ministro israeliano Menachem Begin gli accordi in base a cui, tra l’altro, a fronte dell’impegno egiziano a non militarizzare la penisola del Sinai, Israele ritirò da tale territorio il proprio esercito che lo occupava dal 1967 a seguito della guerra dei Sei Giorni.

Dalla loro esperienza, culminata nella partecipazione quali consulenti alla trattativa di Camp David, Fisher e Ury hanno tratto lo spunto per pubblicare nel 1981 il libro “Getting to yes” (L’arte del negoziato) in cui sono esposti i principi di fondo della mediazione facilitativa e sottolineata in particolare l’importanza di prestare sempre grande attenzione sia ai rapporti personali tra coloro che in fatto conducono qualunque trattativa negoziale sia all’emotività di ciascun partecipante (a cominciare da noi stessi, perché le nostre reazioni concorrono a determinare quelle dei nostri interlocutori, innescando processi di retroazione o “feedback”).

E infatti, anche al più alto livello, in concreto le trattative non si svolgono mai né tra gli Stati, né tanto meno tra le grandi industrie, gli istituti di credito o le compagnie assicurative, bensì tra le persone che le rappresentano e le cui sensazioni e percezioni possono essere determinanti per l’esito finale di qualunque negoziato, si tratti di un accordo internazionale o anche solo di una vertenza bagatellare con un singolo consumatore.

Se partiamo dalla risaputa necessità di tenere nella dovuta considerazione che l’esito della trattativa tra istituzioni viene determinato dalle persone fisiche che in fatto le rappresentano, con una sorta quindi di approccio dal basso verso l’alto o “bottom up”, l’approccio geopolitico dell’articolo d’opinione ricordato sopra mi pare solleciti poi un’ulteriore utile riflessione attraverso il rovesciamento della prospettiva dall’alto verso il basso, o “top down”.

E infatti l’idea di attribuire percezioni normalmente riferibili alle singole persone fisiche – come l’identità, il risentimento o il desiderio di riconoscimento – ad enti quali gli stati sovrani, così come in genere a qualunque istituzione le cui dimensioni trascendano il singolo, mi sembra di grande suggestione per i pratici della mediazione perché apre una sorta di dimensione collettiva, in cui occorre tenere ben presente come sull’atteggiamento del singolo negoziatore possano influire non solo le sue personali idiosincrasie, ma anche idee diffuse a livello generale e comunemente condivise.

Nella singola trattativa occorre dunque avere ben presente altresì tale secondo aspetto, anche per individuare eventuali meri luoghi comuni o cliché, suscettibili comunque di avere rilevante impatto sull’atteggiamento dei singoli, per poterli tenerli separati dai valori generali non negoziabili e cercare di demistificarli.

*Mediatore e Avvocato in Milano