La formazione del mediatore: Tavola rotonda (seconda parte)

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Proseguiamo la tavola rotonda arrivando a toccare un punto particolarmente delicato. Il rapporto tra mediazione ed atenei italiani. 

Si parla spesso di divulgare la cultura della mediazione nella scuola e in università. Che ruolo possono svolgere gli enti di formazione a tale proposito?

Ana Uzqueda: Gli enti di formazione hanno un ruolo importante nella diffusione della cultura della mediazione, non soltanto presso le scuole e le università, ma anche a livello sociale.
Gli enti di formazione sono formati da professionisti che oltre ad studiare continuamente la mediazione, la praticano e questo costituisce un valore aggiunto fondamentale.
Associazione Equilibrio svolge attività formativa nelle scuole ormai da vent’anni, ha sottoscritto un protocollo per la diffusione della cultura della mediazione nelle istituzioni scolastiche con l‘Università di Bologna e collabora con diversi enti locali nell’organizzazione di eventi rivolti alla cittadinanza perché riteniamo che la nostra missione consista anche nel trasmettere il valore dell’autodeterminazione e della responsabilità individuale nella presa di decisioni che riguardano i conflitti.

Carlo Riccardi: Gli enti di formazione, spesso, sono i custodi di esperienza e di prassi, di lavoro quotidiano che consente di ridefinire continuamente gli aspetti formativi sulla base dei bisogni dei mediatori che nascono nella gestione di controversie sempre più articolate e complesse. Credo che gli enti possano offrire una “voce viva” dalla prima linea e un’adeguata collaborazione con l’istruzione superiore e universitaria potrebbe consentire la creazione di programmi formativi dedicati.

Maurizio Di Rocco: Da diversi anni ormai seguo direttamente delle iniziative che mirano proprio ad avvicinare il mondo degli enti di formazione all’università. Fermo restando che sono comunque poche le università che hanno inserito nei propri piani di studi l’insegnamento della mediazione, e dei metodi ADR in generale, è un dato di fatto che l’insegnamento universitario sconta sempre un alto livello di teoria ed un basso livello di pratica. Agli studenti, invero, non vengono offerte molte possibilità di confronto con mediatori veri e propri, così come non viene mai data la possibilità di assistere “dal vivo” a delle procedure di mediazione. Ciò che gli enti di formazione hanno da offrire, invece, è proprio la possibilità di un confronto del genere, così come la possibilità di partecipare almeno a simulazioni particolarmente realistiche se non addirittura attinenti a casi concreti. Di recente, proprio l’Università di Trento, con cui collaboro, ha sottoscritto un interessante protocollo di intesa con alcuni Organismi di mediazione, che si occupano anche di formazione, per dare la possibilità agli studenti di assistere, in qualità di uditori, a dei veri incontri di mediazione, previo, ovviamente, il consenso di tutte le parti interessate.

Il legislatore italiano prevede una serie di indicazioni piuttosto precise che riguardano gli enti di formazione, la durata dei corsi e i contenuti degli stessi. Il modello, così com’è, funziona? Oppure sarebbe necessario adottare qualche correttivo?

Ana Uzqueda: Sicuramente il primo correttivo che introdurrei riguarda la durata del corso iniziale, che dovrebbe essere come minimo triplicata per offrire un’adeguata formazione di base. Come detto in precedenza, dovrebbe includere lo studio dei principali modelli di mediazione, oltre che i l’approfondimento dei diversi ambiti di applicazione e tipologie, tra cui la mediazione online, che dal mio punto di vista continuerà ad essere utilizzata anche dopo la pandemia.

Il secondo correttivo riguarda il tirocinio. Dopo 10 anni di esperienza della maggior parte dei mediatori, considero che debba essere abolito come formazione continua e richiesto solo come requisito per completare la formazione iniziale (fino ad un massimo di cinque incontri di cui almeno tre di mediazioni proseguite, ad esempio).
Uno strumento che riterrei utile, a fianco alla formazione continua (che spezzerei in moduli annuali senza aumentare la durata attuale) è quello della supervisione professionale. La supervisione è un modo per valorizzare la professionalità dei mediatori e accrescere la qualità del servizio offerto agli utenti e agli avvocati. Rappresenta un processo di apprendimento dinamico che avviene attraverso la riflessione continua e sistematica del proprio operato (teoria che arricchisce la pratica e pratica che aiuta a comprendere meglio la teoria, ovvero i modelli teorici di riferimento).
Infine, inserirei una percentuale di ore in cui poter invitare docenti esteri, con un sistema di accreditamento snello, per poter offrire una visione internazionale e la possibilità di confrontarsi durante i corsi di aggiornamento obbligatorio, con esperti di altri Stati in materia di mediazione civile e commerciale.

Carlo Riccardi: Dal mio punto di vista andrebbero alzati gli standard e periodicamente rivisti i contenuti e le modalità con cui si fa formazione, Andrebbe fatto un lavoro serio sul controllo qualitativo dell’offerta formativa. Attualmente tutti gli enti di formazione sono formalmente sullo stesso piano; il controllo qualitativo dovrebbe farlo il “mercato” che, dal mio punto di vista, non sempre soddisfa questa funzione. Innovare, avere docenti preparati, creare programmi adeguati ha un costo. Attualmente, quantomeno negli ultimi anni, abbiamo assistito a un proliferare selvaggio di corsi di formazione che non necessariamente garantivano la qualità ma che avevano lo stesso valore formale. Questo lo trovo, in un ragionamento a lungo termine, controproducente a patto di avere la qualità della formazione come riferimento e come obiettivo finale del proprio lavoro.

Maurizio Di Rocco: Se pensiamo che all’estero e, in particolare, in altri Paesi europei a noi vicini, il percorso formativo base per i mediatori è di almeno 200 ore, è facile comprendere come il nostro modello formativo di base, per il quale è prevista una durata di sole 50 ore, possa risultare piuttosto modesto. Al di là della durata, anche sotto il profilo della ripartizione dei contenuti, a mio parere, ci sarebbe di cui lamentarsi, specie considerando che in Italia la parte teorica dedicata alla normativa in tema di mediazione porta via buona parte del tempo disponibile, a discapito della parte pratica. Al riguardo, comunque, ritengo che, al di là del problema quantitativo, ci sia un serio problema qualitativo nell’attuale formazione di base, posto che i novelli mediatori, di fatto, non hanno pressoché alcuna possibilità di mettersi alla prova prima di potersi accreditare presso un Organismo di mediazione. Il problema dell’apprendistato, in effetti, è un problema comune a molte altre professioni e/o professionalità ma, nel caso della mediazione, è particolarmente aggravato dall’assenza di qualsiasi sostegno economico da parte dello Stato, che pure si serve da anni dell’attività dei mediatori per deflazionare il flusso dei procedimenti giudiziali in sede civile e commerciale.