Che cos’è il coaching? Intervista a Iacopo Savi

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Photo by Ashley Batz on Unsplash

Oggi Blogmediazione incontra Iacopo Savi. Avvocato, coach e mediatore (lui ci spiegherà meglio in quale ordine), Iacopo ci guida all’interno del mondo del coaching per farci capire quanto possa essere utile a tutti noi.

Ci rivolgiamo ad una persona che è avvocato, mediatore e coach. Attività molto diverse tra loro. Hai qualche preferenza o sono professionalità che convivono tra loro?

Sono professioni molto diverse tra loro, ma non così distanti come si potrebbe pensare. Nella mia visione del mondo tutte e tre sono vocazionali ed al servizio degli altri, ognuna a modo proprio. Non mi nascondo dietro ad un dito ed è innegabile che oggi la mia preferenza ricada totalmente sul Coaching perché è quella con cui, oggi, esprimo e posso vivere al 100% il mio Scopo. Questo non vuol dire che io rinnego le altre anime che albergano in me, quella di Avvocato, di Mediatore e di Trainer. Tanto è vero che mi definisco l’AvvoCoach. Va comunque fatta una precisazione: dico che è la preferenza attuale perché il Coaching, nella mia evoluzione professionale, è la meta raggiunta lungo un percorso umano e professionale iniziato tanto tempo fa, ai tempi degli studi universitari. Il Coach che sono oggi è il frutto del mio “passaggio” attraverso le professioni di Avvocato, Avvocato Collaborativo, Formatore, Mediatore Civile e Commerciale, Mediatore Familiare, Praticante avvocato e prima ancora Studente universitario, tappe che ho indicato in ordine di “crescita” umana e di ricchezza e pluralità di competenze, oltre che cronologico.
Essere Coach e fare Coaching rappresentano la fase matura della mia evoluzione personale e professionale. E’ la prima attività professionale che ho scelto consapevolmente e libero da imprinting, paure o condizionamenti esterni.
Mi spiego meglio, per chi non mi conosce.
Sono figlio d’arte e primo maschio in una famiglia in cui questo ha ancora un significato ben preciso in termini di oneri e onori. Diciamo che la mia strada è stata tracciata ancor prima che nascessi. Al termine del liceo non avevo aspirazioni né sogni da concretizzare. Avevo passioni per le quali non vedevo sbocchi professionali (e con il senno di poi questo atteggiamento è stato molto ingenuo se penso alla metodologia Lego Serious Play) ma non avevo idea di quello che avrei voluto raggiungere nella mia vita, professionalmente parlando.
Per questo ho fatto la scelta più facile, deresponsabilizzata e poco consapevole: ho seguito le orme paterne con l’avvocatura.
Alla mediazione, invece, sono arrivato dopo e per motivi ancora meno fondati: quando non riuscivo a passare l’esame di abilitazione all’esercizio dell’avvocatura ed ero “bloccato in un cul de sac”, un amico di liceo mi disse che c’era un modo per i praticanti di fare separazioni attraverso la mediazione familiare.
E così, partendo dalla speranza di una “scorciatoia”, ho trovato un master di formazione e mi sono iscritto.
Così mi si è posta davanti una visione molto più “variegata” e ricca di opportunità rispetto a quelle in seno al mondo della legge e del giudizio (che troppe volte vedevo concretizzarsi in una inadeguata gestione dei conflitti familiari). Questo “spettacolo”, di cui mi sono profondamente innamorato, mi ha condotto a scoprire tante cose di me e soprattutto mi ha svelato una realtà diversa da quella che stavo costruendomi, una realtà in cui era possibile la convivenza tra il diritto (il mio presente) e la psicologia (ambito che mi ha sempre affascinato). Il master in Mediazione Familiare è stato un momento cruciale del mio percorso, anche perché è consistito in un lavoro molto profondo sul sé, prima ancora che in tecniche o modalità di gestione dei conflitti. Poco dopo la sua conclusione mi sono avvicinato alla Mediazione Civile e Commerciale ed attraverso quest’ultima alla Formazione; finalmente, ho iniziato ad esercitare “altro” oltre al praticantato legale.
Ma l’incapacità di superare l’esame di stato era sempre incombente e l’assoluta necessità di valicare l’ostacolo mi ha indotto ad iscrivermi ad un corso di tecniche di memoria e lettura veloce. Primo corso di formazione dettato sì da bisogni strettamente legati al diritto ma per contenuti completamente avulso dal suo contesto. Ed è stato in quel periodo che, per la prima volta, ho sentito parlare di Coaching. In tale occasione uno dei trainer della scuola mi ha fatto da Coach e con lui abbiamo affrontato anche tematiche diverse rispetto a quelle connesse al corso. Quindi il mio primo incontro è stato da cliente, fruitore delle abilità di un Coach di cui non avevo interesse a sviluppare le competenze. Nel frattempo, ottenuta l’abilitazione, la mia attività si è mossa tra l’avvocatura e la Mediazione (Familiare, Civile e Commerciale), approfondendone gli aspetti, fino ad approdare alla Pratica Collaborativa. Oltre a Laura, la Coach della scuola, nel tempo ho assunto altri Coach e ho continuato a lavorare su di me; così è emersa la consapevolezza che io volessi qualcosa di più e di diverso come Professionista. Ho iniziato a realizzare che tutto il mio percorso professionale in precedenza era stato una continua tensione tra la voglia di uscire dalla mia zona di comfort -il mondo legale con ciò che ad esso era legato- e la paura di farlo davvero.
Utilizzando la metafora del Viaggio dell’Eroe, potrei dire che per tanto tempo ho sentito la “chiamata” ma la ho rifiutata, per paura di deludere i miei genitori, per paura di un futuro incerto, per paura di fare un salto “quantico” al di fuori del mio seminato.
E come in ogni Viaggio dell’Eroe che si rispetti anche io ho incontrato una persona -nella realtà anche più di una- sono cresciuto e sono riuscito a scegliere, liberamente, per il mio futuro: mi sono iscritto ad una scuola di Coaching, ho svolto il mio percorso ed ho acquisito le competenze e, soprattutto, il Mindset del Coach
Per questo motivo, oggi, preferisco il Coaching e ne utilizzo alcune metodologie:

  • come Avvocato con i clienti,
  • come Mediatore con le parti,
  • come Formatore con i “discenti”
  • come Coach con i Coachee, che spesso tra l’altro sono avvocati e mediatori.

Che cos’è il coaching e come mai te ne occupi?

Il Coaching, detto in parole povere, è una metodologia che accompagna il Coachee (cliente) nel raggiungimento dei propri obiettivi. E’ un percorso che affianca la persona nella turbolenza del cambiamento, è un sistema di “allenamento” attraverso cui è possibile sviluppare nuove competenze e nuovi modelli di pensiero ed il coach è il facilitatore di questo cambiamento, è la lente che aiuta a mettere a fuoco le proprie potenzialità. Un coach è Alfred per Batman, Maestro Miyagi per Daniel San, Mickey per Rocky
Al pari del mediatore, il coach non offre soluzioni preconfezionate, non dice cosa le persone devono fare per ottenere risultati.
Viceversa il Coach aiuta il cliente a:

  • chiarire dove si trova, il c.d. stato attuale;
  • chiarire cosa vuole ottenere il, c.d. stato desiderato;
  • formulare il percorso, il piano di azione attraverso cui raggiungere gli obiettivi
    individuati;
  • sviluppare le risorse e le strategie necessarie da impiegare nel piano di azione che
    condurrà la persona dal suo “stato attuale” allo “stato desiderato”.

Uso una metafora tratta direttamente dal mio quotidiano.
Vado a correre la mattina presto, tra le 6.00 e le 6.30. In inverno è ancora molto buio e non sempre i lampioni funzionano ed illuminano il sentiero che percorro; anzi, in alcuni tratti i lampioni non ci sono proprio.
Nonostante io conosca molto bene il percorso -lo seguo tutte le mattine da anni- ho una torcia da fronte: e questo perché, se è pur vero che la strada non cambia, cambiano sicuramente le condizioni intorno a me.
Mi spiego meglio: la torcia mi permette di
1) illuminare le zone prive di luce e di rilevare eventuali ostacoli poco visibili
2) vedere meglio il sentiero ed accorgermi se sto deviando dalla direzione giusta (rischiando di finire nelle sterpaglie o nel torrente a fianco)
3) decidere di cambiare percorso se utile per migliorare l’allenamento
Ecco, il Coach è un po’ come la torcia che uso:

  • non mi dice dove devo andare ma mi mette nelle condizioni di vedere meglio dove sto
    andando e di scegliere cosa è meglio per me;
  • non mi dice cosa fare ma mi permette di acquisire consapevolezza degli ostacoli,
    spesso interiori, da affrontare;
  • non corre per me ma mi aiuta ad esprimermi al meglio, anche in condizioni complesse
    non mi indica dove guardare ma mi fornisce la possibilità di allargare la mia visione.

Il Coach quindi, come la torcia, è una risorsa a disposizione del cliente per raggiungere con più facilità i propri obiettivi. Come dico sempre, la vita è già complessa di per sé, laddove possiamo semplifichiamola con l’aiuto -perché no?- di un Coach. Credo che da quanto ho detto si evinca il profondo amore che nutro verso il Coaching, che ormai non è solo una professione ma soprattutto il modo con cui approccio la mia vita.
E me ne occupo con entusiasmo perché in termini lavorativi è ciò che oggi, più di tutto, mi permette di vivere al 110% il mio Scopo: io lavoro per promuovere idee, coinvolgere ed ispirare così che le persone realizzino ciò che le appaga.

Che rapporto c’è tra coaching e mediazione?

In un certo modo sono attività cugine, hanno in comune molti strumenti ed alcune modalità di approccio sono sovrapponibili.
Entrambe infatti:

  • non forniscono soluzioni e/o accordi;
  • si astengono dal giudizio
  • hanno un che di maieutico, nel senso che tendono a “tirare fuori” dall’anima piuttosto
    che a “mettere dentro”.

Anni fa ho scritto un articolo in cui descrivevo la mediazione come un’attività che “educa” al conflitto, che aiuta le parti a “tirare fuori” -ex ducere- la consapevolezza necessaria a trovare una soluzione, condivisa e soddisfacente, per riorganizzare i rapporti interpersonali.
Anche il coach, in questo senso, è un educatore che accompagna la persona nell’acquisire la consapevolezza delle proprie risorse e delle proprie capacità da allenare.
Ma vi sono delle differenze fondamentali.
L’obiettivo del Mediatore è aiutare le parti a trovare soluzioni condivise per riorganizzare i propri rapporti e a gestire costruttivamente un conflitto.
L’obiettivo del Coach è aiutare le persone ad ottimizzare il proprio potenziale, e per fare questo agisce da “catalizzatore” e “facilitatore” di cambiamento, incanalando ed orientando le energie del Coachee.
La seconda macro differenza sta nel fatto che la filosofia del Coaching si basa sulla convinzione che il cliente possiede un potenziale inespresso che va fatto emergere e va ottimizzato.
Io so che ogni persona ha già dentro di sé tutte le risorse per raggiungere i risultati cui tende. E’ necessario attivarle ed allenarle.
Proprio perché Coaching e Mediazione hanno questi punti di contatto e queste differenze possono bene integrarsi, come mi è capitato di sperimentare (sia come Coach che come AvvoCoach di parte).
Lavorare come Coach per allenare (prima o tra le sessioni) le abilità relazionali di gestione del conflitto del cliente della mediazione (senza entrare nel merito legale o dei termini della mediazione), amplifica l’efficacia del Mediatore.
Come mediatore mi sono trovato spesso in situazioni in cui, al termine della sessione, le parti avevano acquisito consapevolezza sul loro modo di approcciare il conflitto e si erano ripromesse di gestire la situazione in maniera più efficace (e qui l’attitudine di “ostetrico” del mediatore); ma, esulando dallo scopo immediato (risolvere un conflitto e giungere ad un accordo) non avevano interesse a consolidare queste abilità, cosa che rendeva le sessioni successive più difficoltose data la necessità di “tornare indietro” a riprendere il filo di quelle abilità di cui si è detto sopra.
Memore di questa esperienza mi sono offerto, come Coach, di affiancare alcuni colleghi mediatori, lavorando proprio per consolidare le abilità raggiunte in mediazione dai clienti (disponibili a farlo), così da semplificare il lavoro di entrambi nelle sessioni successive. Perché il Mediatore non doveva più preoccuparsi di “riprendere” il passato, bensì lavorare sul presente con le nuove consapevolezze per il futuro.

In un momento storico particolarmente difficile come quello che stiamo vivendo, cosa potrebbe offrire un coach che possa essere di aiuto alle persone?

Per prima cosa va detto cosa il Coaching non può offrire, per non alimentare false aspettative: il coach non è uno psicologo né un terapista ed il percorso di coaching non è una cura; quindi la gestione di crisi di panico et similia non rientra nell’alveo delle competenze del Coach.
Durante il lockdown di marzo/aprile, in cui offrivo un’ora di Coaching gratuito, alcune persone mi hanno chiesto aiuto per la gestione di problematiche psicologiche (ad esempio attacchi di panico); in un caso, addirittura, un paziente seguito presso un Sert (Servizi per le Tossicodipedenze) cercava un sostegno ulteriore. Ecco in situazioni come queste ho indirizzato i clienti a terapisti, psicologi o psichiatri (fornendo direttamente nomi e numeri).
Ferme tali premesse, credo che in un momento come questo il coach sia un punto di riferimento per la concretezza dell’intervento che propone, per la dimensione temporale in cui opera (il “qui ed ora”), e per la finalizzazione futura che accompagna ad immaginare e a realizzare. E’ un supporto per trovare, ritrovare o mantenere la “centratura” in una situazione in cui il nostro equilibrio (nella vita, nelle relazioni, nel lavoro) è messo a durissima prova.
Del resto, come dicevo prima, il Coach è un “facilitatore” del cambiamento, e nei giorni in cui stiamo vivendo saper mutare per adattarci alle circostanze è più una necessità imprescindibile che una scelta maturata; quindi avere a fianco una figura professionale che sostiene la persona nella ricerca della propria centratura e della modalità migliore per superare la crisi attuale, fa una grande differenza.
Il Coach può essere di supporto:

  • nel prendere consapevolezza dei propri punti di forza e di ciò che invece è migliorabile,
    per pianificare un percorso formativo individuale o aziendale mirato;
  • a coloro che, a causa della crisi, hanno perso il lavoro ed ai professionisti che temono
    di non riuscire a superarla;
  • ai lavoratori che percepiscono come insormontabili le difficoltà nello svolgere e portare
    avanti la propria attività professionale;
  • ai professionisti che, nonostante i tempi “grami”, vogliono migliorare le performance
    individuali e dei loro collaboratori;
  • a colui che vuole utilizzare questo momento storico per dare una svolta al proprio
    assetto personale o professionale e per sviluppare nuove competenze.

Queste le prime idee che sto delineando (e che sto sperimentando): il principio è il confronto con qualcuno che, come una “torcia”, mostri una realtà “illuminata” che comprenda anche le zone cieche, che aiuti la persona ad individuare le proprie risorse o le soluzioni ad un problema che può apparire insormontabile, che supporti nel definire una strategia per il futuro. O anche che, semplicemente, porti il cliente a capire che le cose vanno bene così e che servono solo minimi correttivi per arrivare a primavera.

A tuo avviso i mediatori avrebbero bisogno di un coach? E gli avvocati?

Assolutamente sì! In entrambi i casi e lo dico da Mediatore ed Avvocato che ha assunto un Coach 🙂
Ho notato negli anni che colleghi Avvocati-Mediatori, anche molto capaci, vivono con una certa difficoltà il “dualismo” di rivestire entrambi i ruoli lavorativi, come se si sentissero “in colpa” ad agire di volta in volta nell’una o nell’altra veste.
Oppure colleghi che, affaticati dall’attività quotidiana e frustrati dai magri proventi economici, si domandano, peraltro in modo poco utile, se sono in grado di gestire la situazione professionale, o se non sia meglio abbandonarla perché “non è più come una volta”.
Ed ancora colleghi che non hanno ben chiaro il loro scopo profondo, la loro “Ragion d’Essere” di Mediatori o di Avvocati.
Hanno perso il piacere che dovrebbe derivare dall’esercizio della propria attività e la vivono solo come un lavoro, focalizzando l’attenzione solo sugli aspetti onerosi, difficili e problematici che ne derivano.
Affrontare le sfide con proattività, coraggio e convinzione che “ce la si può fare e ce la si farà” non vuol dire scotomizzare o minimizzare i problemi, non significa che dobbiamo sempre vivere felici senza preoccupazioni le reali difficoltà che la vita quotidiana reca in sé. Significa guardare anche la dove non siamo abituati a farlo, significa vedere entrambe le facce della medaglia della vita (sofferenza e fallimento molto spesso vengono “scelti” da chi li prova per il semplice fatto che vengono accettati e subiti).
Significa avere la capacità di spostare il focus attentivo verso altre direzioni,
E cambiare il focus attentivo difficilmente è un compito che siamo in grado di svolgere da soli, io compreso, tanto che periodicamente mi confronto con dei Coach: perché qualcuno che mi affianca in quest’opera e mi aiuta a vedere la realtà “illuminata” è utilissimo.
Mi piace quello che ha detto il dott.Gawande in un TedTalk: “Il Coach è uno specchio che riflette la realtà aumentata, dando la possibilità al Coachee di vedere la realtà in maniera nuova. Questo permette alla persona di generare nuovi schemi e modi di pensiero, gestire il cambiamento e capire il perché sta facendo quello che fa, perché si alza ogni mattina”.
Concludo con una precisazione che ritengo d’obbligo:
Il Coaching, come la Mediazione, è bello ed utile… ed esattamente come la Mediazione anche il Coaching è per molti ma non per tutti.