Il conflitto al tempo della quarantena

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di Antonia e Remo Rizzi*

È successo tutto molto rapidamente e la situazione si è evoluta in modo abbastanza imprevedibile. Ripensando a quello che succedeva solo una settimana fa, ci sembra di parlare di un’altra vita: frequentare i locali, incontrare gli amici per una pizza, prendere il treno… sembra tutto così lontano. Notte fra giovedì e venerdì scorsi: un’ultima occhiata allo smartphone, ore 2.30, sul sito dell’Ansa si dà notizia del primo malato di Coronavirus in Italia, a Codogno. Abbiamo letto bene? Codogno, sì, Codogno, dove abitiamo noi. Dai, dormiamo, forse abbiamo sognato, forse domani sarà tutto più chiaro. Magari sarà l’inizio una serie di scoperte di malati, in tutta Italia, in tutta Europa, chissà? Ma siamo preparati, no? Il nostro sistema sanitario è capace di affrontare una situazione del genere, ne siamo sicuri. Di certo quella notizia non ci ha fatto perdere il sonno. La mattina dopo però tutto era molto più vero, molto più concreto e reale. Alla radio la notizia viene confermata, continuano a ripetere Codogno, Codogno in ogni notiziario, come fosse un monito, un mantra, il male, un villaggio di dannati. Esagerati. Ma le notizie nel frattempo diventano sempre più allarmanti. Si comincia a parlare di zona rossa, isolamento, quarantena, un’escalation che arriva fino ai primi provvedimenti. E poi, siamo isolati.
Nessuno di noi se lo sarebbe mai aspettato: mai avremmo potuto immaginare che la nostra ridente e tutto sommato misconosciuta cittadina diventasse, da un giorno all’altro, oggetto di tante e tali attenzioni, indagini, interviste, speculazioni, rivendicazioni. Noi Codognesi potremo sbandierare ai quattro venti per i secoli a venire che Codogno ha dato i natali al pittore e disegnatore Giuseppe Novello, che ha ospitato santa Francesca Cabrini, patrona dei migranti, che è sede di una importante fiera agricola autunnale e di numerose aziende ed attività imprenditoriali di assoluta eccellenza, che vanta edifici di grande valore storico e artistico e una significativa tradizione culturale. Niente da fare: da qui in poi Codogno sarà famosa per essere stata il focolaio (o, come qualcuno ha scritto, il “cratere”) dell’epidemia di CoVid19, alias Coronavirus, che partito dalla Cina si sta diffondendo in vari paesi nel mondo. Un primato davvero indesiderato e indesiderabile, il nostro: da un giorno all’altro ci siamo ritrovati in quarantena, confinati nei relativamente angusti limiti del nostro territorio comunale, con l’ordine di non andare né al lavoro né a scuola, di chiudere tutte le attività produttive e i negozi, tranne le farmacie e gli alimentari, con le fermate dei treni e degli autobus soppresse, con tutti i nostri appuntamenti e impegni rimandati a data da destinarsi e, soprattutto nei primi giorni, con il senso della sciagura incombente su di noi.
Fin dall’inizio di questa emergenza sanitaria, molti hanno citato, sui social e altrove, brani sulla peste tratti da I promessi sposi di Manzoni o dal Decamerone di Boccaccio. I più fini letterati si sono spinti fino al poema dell’autore latino Lucrezio De rerum natura, i più catastrofisti hanno pensato a romanzi quali L’ombra dello Scorpione di King, Io sono leggenda di Matheson o La strada di McCarthy. Pochi probabilmente sanno che anche un autore codognese, Pietro Francesco Passerini, si è cimentato, nella prima metà del Seicento, nella descrizione di un’epidemia (la stessa di cui scrive Manzoni) nel poemetto in esametri latini De Cotoniensi pestilentia. Quindi Codogno c’era già passata: certo, la quarantena del tempo non ha nulla a che vedere con l’attuale, ma le limitazioni della libertà alle quali al momento siamo sottoposti hanno creato una serie di situazioni sulle quali è interessante riflettere.
Intanto, l’astensione dal lavoro e dalla scuola ci costringe a tempi e modi di convivenza con la famiglia che tendenzialmente vanno oltre il consueto, il che prospetta da una parte un ritrovato senso di comunanza (stare insieme a tutti i pasti, quando prima ci si vedeva a malapena a cena, condividere qualche passatempo, giocare a carte, conversare, fare progetti per il “dopo”, mettere in ordine quei terrificanti cassetti e armadietti nei quali, nel corso degli anni, si è stratificato di tutto…), dall’altra configura scenari di potenziale conflitto quando la condivisione degli spazi (in primis il divano) e delle risorse (siano esse il tablet, il televisore o un altro elettrodomestico) induce ad attuare strategie di accaparramento simili a quelle di chi, in questi giorni, saccheggia i supermercati nel timore di rimanere relegato in casa senza cibo. I conflitti “fisiologici” all’interno della famiglia sono spesso caratterizzati da notevole violenza verbale e da un’escalation rapidissima, ma per fortuna, in situazioni “normali”, tendono a sgonfiarsi con altrettanta rapidità. Certo è che la convivenza forzata, l’impossibilità di raggiungere altri luoghi e altre persone e di dedicarsi alle attività consuete, l’anomalia del contesto della zona rossa sono catalizzatori potenti per l’insofferenza, le rivendicazioni di autonomia, addirittura il ripensamento delle dinamiche familiari.
Fuori dal contesto familiare, essere al centro della zona rossa ci rende un po’ soli contro tutti: ci sentiamo in conflitto con le autorità, con il resto della regione e della nazione, con tutti coloro che a vario titolo hanno manifestato rifiuto o critiche nei nostri confronti. Da questa esperienza abbiamo imparato che più ci si trova vicini alla fonte di una notizia, maggiormente ci si accorge di quanto i cosiddetti professionisti dell’informazione raccontino male le cose: siamo stati rappresentati come città fantasma, far west, scenario apocalittico e via esagerando. Qualche giornalista ha parlato e scritto di check point, accostando questa espressione a nomi di paesini per i quali siamo abituati a transitare. Solo che noi, se immaginiamo un check point, pensiamo al muro di Berlino, a film ambientati in zone di guerra, dove cadono le bombe e i giornalisti hanno bisogno di pass speciali per poter girare liberamente. Non c’è niente come sentirsi attaccati per creare uno spirito di corpo impensabile in altre circostanze: abbiamo assistito a una unanime alzata di scudi a difesa del “nostro” ospedale, dei “nostri” medici, del “nostro” tessuto sociale e produttivo, della “nostra” quotidianità che con grande sforzo cerchiamo, nei limiti del possibile, di mantenere e abbiamo puntato alla valorizzazione di esperienze locali (per esempio la didattica a distanza predisposta dalle scuole, o le lezioni di fitness sui social approntate da associazioni sportive a beneficio della comunità locale nell’ottica del motto mens sana in corpore sano, o la nascita di gruppi di supporto per le persone più fragili e bisognose) che in altri momenti sarebbero probabilmente passate inosservate. Si ha quasi l’impressione che i social media finalmente abbiano davvero una funzione sociale. Tra citazioni di articoli più o meno autorevoli, battute, meme (abbiamo raggiunto il culmine della creatività), vignette stupide (e a volte decisamente offensive), la “gente” fa girare le informazioni utili. La gente informa la gente. Pian piano l’opinione pubblica si stacca dai giornalisti che informano male (non tutti, ma parecchi), si distanzia da una certa forma di qualunquismo politico un po’ becero e scopriamo, con grato stupore, che mediamente la gente delle nostre parti è meno peggio di quello che ci si aspetta.
Spirito di corpo e senso di appartenenza sono indubbiamente valori positivi, ma non è che all’interno della comunità tutti abbiano le stesse opinioni: sui social (giacché i luoghi di aggregazione reali ci sono stati tolti) si assiste a scontri, a volte anche piuttosto accesi, fra diverse fazioni: gli integralisti della sicurezza contro gli ottimisti, i fiduciosi, contro i disfattisti, gli arrabbiati contro i rassegnati, con tutto quello che di specifico ha la comunicazione virtuale. In ogni caso il fatto che si discuta è sintomo di vitalità e non di rassegnazione. Chi ha descritto la nostra popolazione come spaesata e atterrita, e forse poteva essere un’analisi quasi corretta almeno per i primi due giorni di quarantena (ma chi non sarebbe rimasto per lo meno confuso da una situazione simile?), ha preso un colossale granchio. Si chiedono risposte, rassicurazioni, ma il vittimismo non è di certo l’atteggiamento che contraddistingue la gente di questo territorio.
Certo, ci vorrà molto tempo per capire la reale portata di tutto ciò che sta accadendo, in particolare sui risvolti economici della questione: l’isolamento presenterà il conto. Se da una parte ci si abitua in qualche modo alle restrizioni, le informazioni girano, qualche negozio riapre e si ritorna a frequentare i supermercati in modo pressoché normale, c’è un aspetto economico che comincia a diventare preoccupante, non solo per la zona rossa, ma per gran parte dell’Italia produttiva. Gli imprenditori stanno manifestando e lanciando appelli, il rischio è che l’economia locale si ritrovi in ginocchio. Il punto è però che parlare di “economia locale” non ha molto senso: l’economia è globale, i danni al tessuto economico della zona rossa si ripercuoteranno anche altrove, in una concatenazione potenzialmente infinita. Ci vorrà molto tempo per saldare la frattura fra noi e il resto del mondo: ci sentiamo, a torto o a ragione, vittime innocenti, capri espiatori, quasi martiri. Siamo stati più onesti o solo un po’ più fessi degli altri? Facciamo più controlli, più tamponi e quindi individuiamo più malati? Forse sono domande oziose, ma inevitabilmente ce le siamo poste. Inoltre, se davvero non ci è mancata la solidarietà a livello personale (noi, come molti altri concittadini, abbiamo ricevuto messaggi affettuosi e di incoraggiamento da colleghi, amici e conoscenti da tutte le parti del mondo), a livello generale ci siamo sentiti e continuiamo a sentirci decisamente discriminati. L’urgenza era quella della sicurezza (circoscrivere il contagio, limitare i danni…), ma poi si dovrà pensare anche a dinamiche riparative, e non solo in senso strettamente economico: avremo bisogno di un riconoscimento, non solo di un risarcimento.
Siamo tutti un po’ mesti, ma non rassegnati e tanto meno devastati, come qualcuno voleva descriverci. Il clima è mite, abbiamo tempo a disposizione e in molti, soprattutto nel pomeriggio, andiamo a camminare in campagna. C’è più gente del solito, ragazzi, coppie, famiglie. Abbiamo saputo che all’ospedale di Piacenza è nato un bimbo da una madre positiva al virus. E il bimbo sta bene. Abbiamo più tempo da dedicare gli uni agli altri: forse qualcosa di positivo questo maledetto virus ce lo lascerà. E così, contro tutte le avversità, la vita continua, qui, nella zona rossa.

*Antonia Rizzi è dirigente scolastico e mediatore presso il Servizio di conciliazione CAM. Remo Rizzi è tecnico informatico e scrittore.