*di Lorena Martignoni
“Perché non scrivi un articolo per il Blog Mediazione?”
Quando la domanda di Nicola (Giudice, n.d.r.) è arrivata alle mie orecchie, sono rimasta lì, secca, con le fotocopie in mano. “Io?”, ho subito pensato da laureata in un’altra era galattica in antropologia e da non esperta in materia di mediazione commerciale.
“Perché non scrivi qualcosa sui Balcani, sul conflitto, non tanto e non solo quello successo da quelle parti, ma il possibile conflitto dell’incontro…fra noi e loro?”. “Be’, ora si fa interessante”, ho pensato, accettando con entusiasmo.
– NOI e LORO –
Noi.
Loro.
Esiste un noi ed esiste un loro, quindi. Quei loro che io non avevo mai conosciuto prima del mio arrivo in Kosovo, 12 anni fa. Partivo per rimanerci un anno, non una settimana! Quindi il primo obiettivo che mi ero data in vista della partenza, era fare delle valigie “intelligenti”: cosa mi sarebbe potuto servire che non avrei potuto trovare una volta sul posto? Quindi la nostra prode, nell’ordine, ha comprato pacchi di CD riscrivibili, stampato le foto delle persone e degli animali che voleva avere vicino a sé (in assenza di possibilità di stampa fotografica là, ovviamente), oltre una quantità indefinita di libri e cd musicali “perché là non ne potrò trovare…”. A questo ha aggiunto un guardaroba composto da vestiti sciatti e anonimi, per passere inosservata e confondersi tra la gente. Vi lascio immaginare la mia reazione quando, una volta arrivata, ho trovato centri commerciali che vendevano CD riscrivibili a 1/5 del costo in Italia, CD e film sottotitolati a prezzi irrisori (la pirateria là è un fiorente e diffusissimo mercato, con tanto di vendita e relativo scontrino), ovviamente la stampa fotografica esisteva ed esiste come in qualsiasi altra parte del mondo e le ragazze della mia età, diciamo che non condividevano esattamente una filosofia minimalista e di understatement nell’abbigliamento…diciamo così.
Nemmeno Fantozzi avrebbe avuto delle idee più sbilenche delle mie genialate pre-partenza, ma ci tengo a raccontare l’aneddoto per chiarire immediatamente due punti:
1) il pregiudizio è parte ontologica e fondante del processo di conoscenza, rassegniamoci a quest’idea e smettiamola col professare una presunta equidistanza e oggettività dell’osservazione: esiste sempre un punto di vista, il nostro, e dobbiamo regolarci di conseguenza ammettendolo, facendolo emergere a poco a poco e dichiarandolo a noi stessi, in primis, per tenerne conto nel momento dell’incontro o nel momento di elaborazione dei risultati derivanti dall’osservazione (la c.d. soggettività riflessiva nell’osservazione);
2) per quanto geograficamente vicina a noi possa trovarsi una comunità, uno Stato, un Paese, potremmo non saperne nulla al riguardo, dando invece per scontato (pre-giudizio) di avere delle idee chiare e puntuali sul tema, proprio per quel dato inconfutabile che, nel nostro caso, è la prossimità geografica.
In questo articolo, vorrei concentrarmi in particolare su questi punti e approfondire le dinamiche della dialettica noi-loro, dell’incontro, dello svelamento e forse, un giorno!, della reciproca conoscenza.
COSÌ VICINI…COSÌ LONTANI?
Nella mia formazione scolastica la Jugoslavia è entrata come una meteora e, principalmente, come mero pretesto per parlare della causa scatenante la I Guerra Mondiale, ovvero l’assassinio dell’Arciduca Ferdinando a Sarajevo nel 1914, al tempo facente parte del regno austro ungarico, quale casus belli che ha segnato l’entrata in guerra delle diverse potenze mondiali.
Ma, a parte questo episodio, nulla. Come è possibile che un territorio aldilà di un mare domestico, come lo è il Mar Adriatico, e direttamente confinante con l’Italia, nel caso del confine italo-sloveno, non entri praticamente nei manuali scolastici di storia? Vien da sé pensare che non tutta la storia possa essere contenuta in un libro, esistendo comunque fuori da esso e che, quindi, la “storia” non ci venga raccontata per intero (scusate il gioco di parole) e che esistano diverse narrazioni storiografiche.
Prendo qui, a mo’ di esempio e senza dilungarmici troppo, casi di “narrazioni” che, nel corso del secolo scorso, hanno contribuito alla creazione di due visioni del mondo molto diverse tra Italia e Paesi balcanici.
Mi viene da pensare al caso delle foibe che, in particolare, ha conosciuto livelli di politicizzazione maldestri grazie alla superficiale conoscenza del dato storico da parte italiana e per una mancata condivisione delle due storiografie, assai diverse fra loro, ovvero quella di tradizione italiana e quella di tradizione slovena/croata/serba. La conoscenza media nostrana sull’argomento è pressoché nulla: questa non conoscenza però non è rimasta un fatto neutro, anzi ha creato un vuoto, un vuoto opportunamente riempito negli ultimi due decenni da narrazioni distorte e politicizzate dei fatti storici. Quanto successo è comunque stato letto utilizzando solo le nostre lenti kantiane, quindi interpretato tramite strumenti e categorie nostre e non direttamente sovrapponibili al contesto in cui i fatti si sono prodotti, senza approfondimento delle cause che hanno portato a quegli eventi tragici e che si sono originate ben prima del Ventennio italico, trovando radici più nell’’800 che nel ‘900.
Altro fenomeno storico fonte di creazione di due narrazioni molto diverse è l’occupazione italiana di quei territori, valicando i confini della Ex Jugoslavia e arrivando fino in Albania, la cui la corona dal 1939 al 1943 passò a Vittorio Emanuele III, che ne divenne il monarca ufficiale per il tramite di un’occupazione militare. Nei quattro anni di colonizzazione si favorì attivamente l’insediamento di coloni italiani, oltre che un ingente flusso di lavoratori dall’Italia all’Albania. C’è stato perciò un momento della storia nel quale l’Italia era anche Albania, fatto che molti italiani tendono ad ignorare del tutto…ma non gli albanesi, che invece conservano tuttora nella memoria ricordi di quel periodo o racconti di nonni e familiari, oltre che una serie di evidenze oggettive, come ad esempio l’unica strada costiera che attraversa metà Albania arrivando fino in Grecia e tuttora utilizzata (trafficatissima nel periodo estivo), costruita durante l’occupazione italiana in Albania. Se provassimo a risalire ancora indietro nel tempo, a partire dal 1400, sapremmo che su suolo italico si insediarono e si stabilirono nel corso dei successivi due secoli delle comunità albanesi, soprattutto in Calabria, Sicilia e Puglia. Tuttora tali comunità esistono, mantengono usi albanesi e parlano albanese, in una speciale varietà linguistica che in genere è connubio tra la parlata locale e parole dell’albanese antico. Attualmente la lingua albanese, per legge, è una delle dodici lingue tutelate e riconosciute dallo Stato italiano.
Insomma, di legami con l’Albania l’Italia è ricca e ben prima dell’arrivo della nave Vlora a Bari nel 1991. Nonostante ciò, a partire da quello sbarco e per almeno 10 anni, la campagna mediatica denigratoria nei confronti di cittadini albanesi in Italia è stata martellante e ha dato origine allo scollamento “noi” versus “loro”, in cui il “noi” aveva un’accezione perlopiù positiva e “loro” negativa. Mentre, da parte albanese, il popolo italiano veniva sentito vicino proprio per gli intrecci e i contatti verificatisi nella storia fra le due comunità, che hanno dato origine a vicinanza e a prossimità culturale e linguistica, che hanno lasciato tracce nella memoria e nei paesaggi, fisici e della memoria. L’incontro fra un “noi” e un “loro” così diversamente posizionati l’uno con l’altro, crea uno scollamento dalla realtà e dalle rispettive autorappresentazioni dando origine a un incontro fra posizioni asimmetriche e reciprocamente sconosciute, causando probabilmente una serie di malintesi che portano inevitabilmente a frizioni e a conflitto.
Stesso tipo di ragionamento si può applicare tranquillamente a un rimosso collettivo della coscienza quale quello dell’Islam europeo. Ricordo quando l’Unione Europea volendo dotarsi di una Costituzione -progetto mai decollato per il congelamento del processo di ratifica da parte di molti degli Stati membri- scatenò un dibattito pubblico in merito a un inciso da inserire nel Preambolo. In particolare, accese il dibattito il riferimento alle comuni radici giudaico-cristiane dell’Europa. Una dichiarazione simile è fortemente escludente e anche un po’ “negazionista”, nel senso che nell’Europa (fisica, perlomeno) l’Islam è una religione praticata da 600 anni, soprattutto nella penisola balcanica. Invece all’epoca tutti guardavano alla Turchia come al Paese che, nel bene e nel male, incarnava un’identità musulmana che destava attenzione se non preoccupazione, senza rendersi conto che esisteva, ed esisteva da secoli!, una pratica di Islam completamente endogeno. Una forma di Islam moderato con presenza di comunità sufi (cosiddetto Islam mistico), un patrimonio immenso dal punto di vista culturale, totalmente ignorato. Perfino dalla Costituente (e, come se non bastasse, ricordo che erano gli anni 2003-2007, anni nei quali si credeva che l’allargamento ai paesi dell’Ex Jugoslavia sarebbe avvenuto nel giro di una decina di anni come paesi candidati o come candidati in pre-accesso).
L’INCONTRO
In sostanza, esistono alcuni “rimossi della coscienza” che determinano la costruzione di rappresentazioni fasulle, o comunque scollate dai fatti storici, e che possono portare a dei bei grattacapi. Come regola generale, nel momento dell’incontro è cosa buona far emergere in maniera riflessiva la costruzione che abbiamo dell’altro e riuscire a far emergere quella altrui nei nostri confronti. Questo è possibile adottando un approccio empatico e stabilendo sin da subito un dialogo aperto, in cui l’altro si senta libero di esprimere la propria opinione sapendo che, qualunque essa sia, verrà accolta e non ne conseguirà un atteggiamento giudicante. È solo in un secondo momento che l’ascolto attivo diventa importante: posso ascoltare solo quando l’altro vuole parlarmi. Per arrivare a questo punto, e ritorno un attimo in ambito balcanico, serve tempo. Soprattutto nel momento in cui l’altrui racconto si fa pesante e denso, poiché potrebbe contenere ricordi dolorosi (mi sto riferendo al conflitto in Ex Jugoslavia, sfociato in guerra etnica e civile). Infine, il terzo aspetto di cui tenere conto nel momento dell’incontro è quello della pazienza: bisogna lasciare il tempo all’altra persona, lasciare il tempo affinché le parole prendano forma e riescano a essere liberate.
Se ci si avvicina con cautela all’altro, l’incontro avviene e lo scambio esiste. Altrimenti, è difficile.
Penso a quanti connazionali io abbia visto passare in terre balcaniche senza che nulla capissero dei luoghi e delle persone. Arrivavano con dei pregiudizi, mai s-velati, e se ne andavano con gli stessi pregiudizi cosiddetti di “rinforzo”, necessari per confermare la loro visione del mondo ed evitare ogni faticosa forma di decostruzione di sé e delle proprie opinioni. Capisco quanto possa essere faticoso e anche destabilizzante questo processo soprattutto quando il pregiudizio consiste in un discorso peggiorativo sull’altro. Penso alla lettura che si è formata nel mondo “occidentale” del conflitto degli anni ’90 in Ex Jugoslavia, una lettura ancora molto condivisa di quei fatti sostiene che le cause fondanti che hanno portato a quella brutalità siano da ritrovare in quel territorio inevitabilmente arretrato, quasi barbaro, in sostanza contraddistinto da una “storia di violenza” genetica, iscritta nel sangue. Questa corrente di pensiero stereotipato sui Balcani è conosciuta in ambito antropologico come “balcanismo”** , sul solco del famoso “orientalismo” di Edward Said***, ovvero il discorso prodotto dall’Occidente sull’Oriente, un Oriente costruito da una narrazione occidentale che ne legittimasse il dominio e il controllo.
Quindi, quarto livello dell’incontro è il riposizionamento dopo che l’incontro è avvenuto, sempre in chiave riflessiva, ci si dovrebbe chiedere “Qualcosa è cambiato rispetto al tempo precedente l’incontro?”, e se sì, quali idee, quali opinioni o aspetti fondanti la mia visione del mondo sono stati sollecitati? E in quale modo? Dare risposta a questi interrogativi è un micro-processo che in realtà dà origine a un risultato di profonda importanza: ridefinisce, rimodella costantemente la propria identità, la relazione fra noi e il mondo e fra noi e l’altro. L’identità non è forse questo? Non è un continuo movimento, non è svelamento, non è qualcosa che si rivela nel fare? Io credo non sia facile definire il concetto di identità, ma non riesco a non associarla a un cambiamento costante e inesorabile, a un essere nel mondo mentre si interagisce con quel mondo, a una lenta e paziente costruzione che viene a tessersi attraverso la relazione e il dialogo con l’altro e con l’esistente. L’identità non è, l’identità diviene.
*collaboratrice in ISPRAMED, ex cooperante ONG IPSIA in Kosovo, ex studentessa di Scienze antropologiche ed Etnologiche Università degli Studi Milano-Bicocca
**M. Todorova “Immaginando i Balcani”, Argo Editore 2002 (ed. orig. Oxford, 1997)
***E. Said, “Orientalismo” 1° ed. italiana 1991, (ed orig. Pantheon Books, 1978)