Il riconoscimento; una storia di visibilità

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di Carlo Riccardi*

“Oh, ma perché tutti si disperano per quei tre? Se fossi stato io a morire sul marciapiede voi mi avreste camminato sopra. Io vi passo accanto ogni giorno e non mi notate!” Questo è ciò che Artur Fleck, Joker, dice pochi minuti prima di attivare l’agito violento mediatico che gli restituisce una visibilità negata.
Con quale dei bisogni fondamentali dell’essere umano stava dialogando Artur pronunciando quella frase? Qual è la trasformazione simbolica che nel suo mondo, oltrepassando il livello della malattia, assume l’esperienza d’invisibilità?


Nella tradizione ebraica il nome non è solo un appellativo foneticamente gradevole ma assume un’importanza decisiva; attraverso il nome un soggetto c’è, esiste e identifica il suo agire nella società sulla base del significato che il nome porta con sé. Da qui la scelta del nome – che non risponde alla fonia, a serie televisive o divi del football – quale atto di responsabilità per la “pre-destinazione” identitaria.
Identità appunto, identità il concetto da cui partire per cercare di affrontare la questione del riconoscimento.

Ogni individuo si pone continuamente interrogativi su di sé e sul comportamento che egli tiene tra i suoi consociati, comportamento che trova un sistema valoriale di riferimento in quell’insieme di regole giuridiche e sociali, di principi, di modelli, di rappresentazioni della realtà frutto delle esperienze di un certo agglomerato sociale accumulatesi nel tempo. Questo patrimonio valoriale ci viene trasmesso sin dalla nascita attraverso il rapporto diretto con i soggetti che ci circondano (genitori, amici ecc.) per poi allargarsi alle altre istituzioni sociali (scuola, chiesa, Stato ecc.) che incontriamo nel corso della nostra esistenza. In questo senso nella prima parte della nostra formazione l’identità viene a costruirsi basandosi appunto su questo complesso di risorse che, oltre a definire chi siamo, costituisce anche un modello etico-normativo che influenza la nostra condotta, per poi continuare a svilupparsi attraverso lo scambio con i nostri gruppi di riferimento.

L’identità può quindi essere intesa come “la percezione che ognuno/a ha di quello che è, delle proprie caratteristiche fondamentali che lo/a caratterizzano come essere umano”: il concetto d’identità permette perciò di tracciare i “confini” di noi stessi sia nel nostro essere individui irripetibili, sia come parte di gruppi e di agglomerati sociali, venendosi così a differenziare due tipologie di identità, quella personale e quella sociale. Se la prima ci permette, come già evidenziato, di sottolineare la nostra particolarità soggettiva rendendoci riconoscibili, differenziandoci, dagli altri, la seconda raccoglie invece tutti quei caratteri “oggettivi” che ci rendono simili a molti altri. Usando le parole di Charles Taylor l’identità “designa qualcosa di simile a una comprensione di chi siamo, delle caratteristiche fondamentali che ci definiscono come esseri umani ”. Proseguendo; l’identità, sia nella prospettiva personale che in quella sociale, significa riferirsi all’essere umano non come soggetto isolato e chiuso, ma come individuo in continuo rapporto con altri soggetti dove, nell’economia del nostro discorso, la relazione con gli altri è da intendersi come intersoggettività e cioè come momento di “confronto” e scambio, come relazione attraverso la quale si rende possibile la formazione e la modificazione della individualità . Solo attraverso la dimensione dialogica con gli altri è possibile costruire la propria identità. Prendendo ancora a prestito le parole di Taylor “la nostra identità è sempre almeno in parte definita in conversazione con altri o attraverso l’intesa comune ” ed è “costitutivamente connessa a una dialettica di riconoscimento reciproco che è iscritto nelle relazioni primarie che intrecciamo con i nostri simili ”.

Riconoscimento quindi.
Se, solo attraverso la relazione con gli altri possiamo avere una conferma del nostro esserci, è proprio grazie al riconoscimento di aver diritto all’esistenza al pari di ogni altro che viene a realizzarsi una delle condizioni essenziali che ci rassicurano in relazione all’effettività del nostro esserci e alla possibilità della autorealizzazione individuale . Essere riconosciuti sarebbe quindi per ciascuno “ricevere la piena assicurazione della propria identità grazie al riconoscimento, da parte di altri, del proprio dominio di capacità”. Ragionando a contrario, la mancanza di riconoscimento, usando un’altra espressione il misconoscimento, viene a rappresentare un’insostenibile affermazione dell’inesistenza dell’individuo e l’impossibilità per lo stesso di rapportarsi a sé stesso nella prospettiva dell’approvazione degli altri. Scrive in proposito Honneth che, “il nesso che sussiste tra l’esperienza del riconoscimento e il rapporto con sé risulta dalla struttura intersoggettiva dell’identità personale: gli individui si costituiscono come persone solo apprendendo a rapportarsi a sé stessi nella prospettiva di un altro che li approva o li incoraggia, come esseri positivamente caratterizzati da determinate qualità e capacità. (…) Il grado di positività della relazione con sé stessi crescono con ogni nuova forma di riconoscimento che il singolo può riferire a sé stesso come soggetto: così nell’esperienza dell’amore è contenuta l’opportunità della fiducia in sé, nell’esperienza del riconoscimento giuridico quella del rispetto di sé, e nell’esperienza della solidarietà, quella dell’autostima”. Se questo quadro idilliaco lo ritroviamo nelle nostre relazioni significative, ecco che ci percepiamo integri.

L’integrità non è per sempre, ma è una condizione sempre revocabile in quanto ogni situazione in cui la relazione con l’altro è, o diventa, problematica – un conflitto per esempio – è inevitabile che si apra la possibilità che ciò che accade tra i confliggenti sia valutato (meglio, percepito) da entrambi o da uno solo come potenzialmente lesivo di un proprio valore. Di conseguenza, s’insinua la percezione che sia potenzialmente in pericolo qualcosa che è costitutivo della propria identità. Gli studi e, soprattutto, le pratiche di mediazione ci consentono di comprendere che ogni situazione conflittuale è capace di “portarmi via qualcosa”, è capace di attaccare e ledere un aspetto fondamentale del mio essere persona. Quel qualcosa che mi è stato portato via (per fare qualche esempio, il rispetto, la fiducia, la stima, la lealtà ecc.) io lo rivoglio indietro perché, senza, viene messa in gioco la mia integrità. Ogni volta in cui non esiste il riconoscimento reciproco le persone vivono, potenzialmente, un’esperienza d’invisibilità. La minaccia, la perdita della propria integrità dipende dal fatto che l’altro “non mi ha visto”.

Su questo punto s’innesta quella dinamica che arricchisce una “controversia oggettiva” di un livello soggettivo decisivo. Decisivo perché è vitale ritrovare la mia identità e ritornare a sentirmi un soggetto integro. Decisivo ai fini del lavoro del mediatore perché solo se questo accade potremmo entrare all’interno di un percorso di mediazione significativo e davvero capace di trasformare le relazioni; ovviamente se serve lavorare su questi aspetti. E ancora, decisivo perché solo se l’altro “torna a vedermi” io sono disposto, forse, a modificare la mia visuale “vedendo l’altro”.
Che fine ha fatto Arthur? Probabilmente (a mio parere, il limite più evidente di questo film è di non incontrare il soliloquio del protagonista), vive in modo totalizzante questa esperienza d’invisibilità e inizia, a modo suo, a lottare per essere riconosciuto, per tornare ad esistere affinché qualcuno si accorga di lui.
Nella scena finale, la folla che lo acclama risponde proprio a questa necessità fondamentale.

 

*Criminologo e mediatore penale, Giudice esperto presso il Tribunale di Sorveglianza di Milano, Responsabile formazione Camera Arbitrale di Milano