Lettera aperta di un avvocato disorientato

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di Mariaclaudia Perego

Nel corso degli ultimi anni uno dei miei obbiettivi principali è, ed è stato, quello di formare i colleghi avvocati alla mediazione, uno strumento le cui opportunità sono troppo spesso sottovalutate.
Purtroppo, e con un certo rammarico, come avvocato in mediazione mi sono trovata spesso in difficoltà nella gestione della relazione con il mediatore. Vorrei allora condividere con voi alcune mie esperienze e considerazioni che riguardano in modo particolare questo aspetto, ma non solo.
Ecco cosa mi è successo poco tempo fa: siamo al secondo incontro di una mediazione in tema di locazione, le parti sono ancora piuttosto distanti, io difendo il locatore e, d’accordo con l’altra parte, viene fissato un ultimo incontro, a tre settimane di distanza, per dare la possibilità a parte conduttrice di migliorare la proposta. Dopo due settimane di trattative le parti si sono avvicinate ma rimane ancora un gap di rilievo, quindi propongo alla controparte di rendere nota la situazione di stallo al mediatore così che sia già preparato a sostenere le trattative al successivo incontro. L’altra parte acconsente e così scrivo una mail al mediatore con in copia il collega. Arriva il giorno dell’ultimo incontro ci sediamo a un tavolo e il mediatore guardando gli avvocati chiede: ”Allora avete trovato un accordo? A che punto siete?”  prendo parola e dico: “Siamo al punto che ti ho descritto nella mail”, il mediatore risponde: “Ho visto la mail ma non l’ho letta!”.
Come avvocato mi sono arrabbiata, ho sentito il mio impegno, e tutto il lavoro di concerto con il collega, svalutato, se non fosse stato controproducente per il mio assistito avrei voluto rispondere a tono al mediatore; come mediatrice mi sono sentita frustrata: è questa la cultura della mediazione? Cosa significa davvero essere mediatore? se l’avvocato è già poco convinto della qualità dello strumento mediazione cosa potrebbe trarre da questa esperienza?
Passiamo ora a un secondo esempio che mi ha lasciata egualmente attonita.
Siamo a un secondo incontro, le parti sono piuttosto agitate e il mediatore decide di “fare due brevi incontri separati”. Noi siamo parte aderente e quindi siamo i primi a uscire dalla stanza e ci mettiamo in corridoio ad aspettare (nel corridoio fa piuttosto freddo ma le sessioni dovrebbero essere “brevi”). Il concetto di “breve” può indicare 10, 15, 20 minuti o magari 25, a seconda del punto di vista. In ogni caso, dopo 45 minuti, che per chi aspetta sembrano un tempo anche maggiore, i clienti sono piuttosto scocciati e quindi mi decido a bussare, apro la porta e chiedo al mediatore per quanto tempo avremmo dovuto ancora aspettare: “ci siamo quasi” è la risposta del mediatore. Quindi torno dai clienti e insieme aspettiamo, al freddo, convinti che non ci sia nemmeno il tempo di un caffè. Passano altri 30 minuti e torno a bussare, il mediatore, seccato, mi risponde che stanno per finire. Dopo altri 10 minuti è finalmente il nostro momento, i miei clienti sono particolarmente risentiti, faccio presente al mediatore che sarebbe stato quantomeno opportuno avvisarci della necessità di un tempo maggiore, per la sessione con controparte, così da permetterci di allontanarci e rendere più confortevole l’attesa. Il mediatore mi risponde: ”Mi devo concentrare sulle parti, non posso controllare il tempo”. E i miei clienti fuori dalla stanza non sono forse parti anche loro?
Nel mio modo di intendere la mediazione il mediatore ha il ruolo di custode del processo, se è vero che non decide e non giudica, è anche vero che supporta e, a volte, guida le parti attraverso un percorso che dà loro la possibilità di trovare un accordo. C’è un verbo inglese che, a mio avviso, ben racchiude quanto detto to hold the space. Nel fare questo il mediatore diventa anche custode del tempo, del tempo della mediazione.
Purtroppo c’è molto non detto anche nel ambito della mediazione soprattutto per quanto riguarda la formazione dei mediatori, la motivazione che spinge un professionista a essere mediatore e a offrire il proprio servizio alla società.
Questa lettera aperta, che non nego sia in parte anche uno sfogo, ha però come scopo principale quello di proporre l’idea di un vademecum per mediatori che al di là degli stili e degli approcci alla mediazione, dia delle linee guida semplici, ma univoche, tali da costituire un orientamento per mediatori che troppo spesso navigano a vista, senza poter attingere al patrimonio esperienziale di colleghi che hanno studiato e sperimentato il processo di mediazione per renderlo un strumento professionale e di qualità.
Ecco allora i punti chiave che questo vademecum, per mediatori, a mio avviso dovrebbe toccare:
 – Come avvengono le comunicazioni avvocati-mediatore al di fuori dei singoli incontri
 – Come il mediatore gestisce il tempo degli incontri congiunti e/o separati
 – Come evitare gli impasse di ruoli tra avvocati e mediatori
Molti avvocati non si sentono ancora a loro agio in mediazione, e di conseguenza i loro clienti, se poi ogni mediatore, al di là delle tecniche di mediazione scelte, gestisce la relazione in modo differente, e a volte non approrpiato, è facile che si crei disorientamento e confusione, il tutto a discapito e discredito della mediazione e della professionalità dei mediatori.