di Nicola Giudice
Nonostante se ne parli in modo costante da diversi anni, è sempre utile ricordare come l’immigrazione non sia un fenomeno recente. Si pensi che l’Italia si è trovata al centro di grandi fenomeni migratori già nell’800 e ancora durante il secolo scorso. A livello mondiale, dal 1970 il fenomeno ha assunto un nuovo vigore tanto che, negli ultimi cinquant’anni, i numeri sono pressoché raddoppiati. Lo spostamento di grandi masse ha comportato cambiamenti che hanno influito enormemente sulla cultura e sulle abitudini sia delle popolazioni migranti che di quelle ospitanti. Tra le molte conseguenze, a medio e lungo termine, ve ne è una di particolare interesse anche per chi si occupa di gestione dei conflitti. I migranti, e ancora di più le seconde generazioni, si trovano inevitabilmente esposte a stimoli cross-culturali ed è in costante aumento, nei paesi ospiti, il numero di individui biculturali, intendendo con tale definizione persone che hanno interiorizzato almeno due culture.
Tempo fa, fui invitato a parlare di mediazione tra Italia e Cina ad un gruppo di universitari di Prato, zona ad alta immigrazione cinese. La platea era composta per metà da studenti di chiare origini asiatiche. Al termine dell’intervento mi furono rivolte alcune domande. Mentre consultavo i miei appunti, e distogliendo quindi lo sguardo dalla platea per qualche istante, arrivò un ultimo quesito. Non avrebbe dovuto stupirmi il marcato accento toscano con cui una giovane sino-italiana mi rivolse la sua domanda, ma confesso: mi stupii; nonostante il dato ovvio che quella studentessa, come centinaia di suoi coetanei, era nata e cresciuta in Toscana e aveva pertanto assimilato anche l’accento che tanto caratterizza gli abitanti di quella terra. Dal dibattito che seguì iniziai poi a rendermi conto che i presenti erano ben coscienti delle differenze culturali tra Italia e Cina, e proprio questi studenti di seconda generazione sembravano assai attenti a coglierne le sfumature.
Questo, insieme ad altri episodi, confermarono in me la sensazione che il continuo confronto con culture diverse rappresentava un efficace modo per testare le proprie capacità di ascolto e la propria apertura mentale.
Questa considerazione di partenza mi ha spinto a meglio documentarmi sul ruolo che l’essere biculturale ha nel modo di gestire i conflitti.
Studiosi ed esperti, particolarmente nel campo della psicologia sociale, hanno da tempo realizzato un fatto: convivere con due (o più) culture può creare forti contrasti e difficoltà. La convivenza può creare anche conflitti culturali profondi. Se questi ultimi vengono superati, il soggetto biculturale sviluppa una serie di qualità che lo rendono particolarmente abile nella gestione di situazioni critiche e nella capacità di adeguarsi ai diversi contesti di riferimento.
Sappiamo che un buon mediatore dovrebbe eccellere nella capacità di gestire le emozioni (altri e proprie), nella sensibilità all’ascolto delle parti e, da ultimo, nell’essere un buon gestore del processo negoziale.
Queste tre competenze sono state riscontrate, a seguito di diversi esperimenti e indagini, sui soggetti biculturali.
Nel caso delle seconde generazioni di immigrati, ad esempio, è stato rilevato come il soggetto riesca a seguire le tradizioni del paese di origine dei genitori, mentre sul posto di lavoro sia in grado di adottare uno stile in linea con la cultura del paese in cui si vive. Alcuni test hanno condotto gli autori a concludere che “la mente biculturale è emotivamente versatile, poiché riesce a declinare la condotta emotiva appropriata ai differenti contesti. Le emozioni non esistono in senso assoluto ma costituiscono esperienze affettive che variano profondamente di cultura in cultura (Anolli, 2004)”. Un’altra ricerca ha infatti rilevato come gli esperti biculturali sembrino “assai più competenti e più rapidi nel riconoscere le emozioni degli altri rispetto a quelli monoculturali (Elfenbein, 2006).”
Anche sotto il profilo della comunicazione si possono fare considerazioni interessanti. Si noti come il convivere con culture diverse comporti, almeno in certi casi, la capacità di appropriarsi di diversi sistemi di comunicazione. “Chi possiede una mente biculturale sa che vi sono differenti modi per elaborare i significati, per costruire i percorsi di senso da attribuire al flusso delle esperienze, per conversare e definire le relazioni interpersonali (Anolli, 2006).”
Ancora, i manager delle multinazionali che, grazie all’esperienza maturata in anni di confronto con persone di diversa estrazione culturale, sono in una qualche misurata divenuti biculturali “dimostrano una più efficace gestione delle risorse (fiducia, produttività, clima positivo, leadership situazionale, negoziazione e governo dei conflitti, ecc.). In generale, ottengono risultati fortemente migliori (Kim, Benet-Martínez e Ozer, 2010)”.
I riferimenti sono davvero numerosi e ancora potrebbero proseguire. In questa sede mi preme evidenziare come il soggetto biculturale sia in grado di comprendere maggiormente le difficoltà di ogni parte e riesce a farsene interprete. La propria dimestichezza linguistica lo aiuta inoltre ad individuare più facilmente gli ostacoli linguistici e le incomprensioni dovute ai diversi usi e costumi.
Da quanto precede, ritengo di poter concludere che in alcuni contenziosi, e penso in modo particolare a quelli transnazionali, il mediatore ideale non sia necessariamente quello che non si identifichi in nessuna della due nazioni e che pertanto sia considerato neutrale ma, al contrario, il soggetto biculturale che può con naturalezza identificarsi in entrambe le parti dimostrando che, non l’equi-distanza, bensì l’equi-prossimità risulta essere spesso l’ingrediente vincente di un buon mediatore.
Senza voler scendere nell’arena del confronto politico ideologico, mi pare che il saper cogliere la ricchezza delle positive forme di biculturalismo, che già oggi esistono, rappresenti un’opportunità che tutti dovremmo saper vedere e cogliere.