Pratica Collaborativa. Incontro con Mariacristina Mordiglia

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MordigliaIl principio in base al quale la mediazione è spesso più efficace del negoziato diretto tra le parti si basa sull’obbiettiva maggiore difficoltà che le parti stesse hanno di comunicare e collaborare in modo efficace tra loro per cercare un’adeguata gestione del proprio problema. Questo è particolarmente vero se i litiganti sono assistiti da legali non particolarmente avvezzi al dialogo e al confronto. E’ lecito a questo punto domandarsi se non sia il caso di promuovere un diverso approccio al conflitto da parte degli avvocati. E’ ciò che si propongono di fare gli esperti di Pratica Collaborativa. Per meglio comprendere l’argomento, abbiamo incontrato Mariacristina Mordiglia, tra le maggiori esperte del settore.

1) Negli ultimi anni il dibattito sulle ADR si è arricchito di un ulteriore strumento, quello della cosiddetta Pratica Collaborativa. Di che cosa di tratta?

La Pratica Collaborativa è un percorso non contenzioso nato per affrontare i conflitti familiari, per mezzo del quale i professionisti (che hanno scelto di formarsi al nuovo metodo) lavorano insieme, con una modalità non avversariale e con le parti sempre presenti negli incontri congiunti, in modo da aiutare queste ultime a comprendere a fondo i motivi del loro conflitto e possibilmente a superarli.
I clienti hanno quindi un ruolo attivo e partecipe in quanto sono i veri protagonisti, vengono messi al centro ed accompagnati, nel rispetto delle loro “determinazioni” lungo un percorso prestabilito che si fonda sull’ascolto dell’altro.
Tutti gli attori, professionisti compresi, si impegnano, con un iniziale accordo scritto, a rispettare i principi di lealtà, buona fede, riservatezza e trasparenza. I legali che assumono un incarico collaborativo non assisteranno in giudizio il proprio cliente nel caso che la pratica fallisca e la parte voglia adire le vie legali.
L’avvocato collaborativo ha un ruolo di sostegno, non propone soluzioni e non si prende in carico il compito, tradizionalmente inteso, di risolvere il caso, ma insieme agli eventuali altri professionisti collaborativi appositamente individuati per quel particolare caso (facilitatore della comunicazione, esperto di relazioni, esperto finanziario) tesse la tela tra le parti per facilitare una buona comunicazione, l’emersione dei veri bisogni e la riattivazione delle capacità individuali al fine di mettere le parti stesse in condizione di superare/trasformare il conflitto e raggiungere un accordo condiviso. In sostanza si cerca di evitare la dinamica ricorrente della colpevolizzazione dell’altro, per far recuperare la responsabilità costitutiva di ciascuno di noi.

2) L’approccio alla Pratica Collaborativa sembra prevedere un modo del tutto nuovo di pensare il ruolo dei professionisti all’interno di un conflitto. E’ davvero così?

Il cambio di paradigma dei professionisti collaborativi è grande, cambiano i valori e le abilità messe in campo: bisogna avere equilibrio, capacità di ascoltare e negoziare, di lavorare coi colleghi sapendo gestire le necessarie interazioni, relazionarsi in modo nuovo con i clienti. Queste capacità vengono portate nelle stanze del percorso collaborativo e loro stesse contribuiscono a costruire quel clima adatto a favorire la trasformazione, certamente dell’atteggiamento dei clienti, se non addirittura di loro stessi
Il professionista scende quindi dal piedistallo sul quale solitamente è posizionato per imparare ad affiancare il proprio cliente partendo dal livello in cui quest’ultimo si trova, mettendo in atto un non facile lavoro di attivazione delle risorse necessarie al cliente per superare, il più possibile da solo, le proprie difficoltà nel trovare soluzioni condivise. Ciò può fare però sapendo che dall’altra parte c’è un altro collega che lavora allo stesso modo con il suo cliente.
Gli altri professionisti terzi imparziali che possono essere coinvolti nel team metteranno a disposizione di tutte le parti il proprio sapere specialistico, confrontandosi anche con i legali in maniera assolutamente paritaria (eliminando ruoli e gerarchie) sui bisogni, le necessità, le urgenze e quant’altro può risultare rilevante per i comuni assistiti.
L’obbiettivo è fare in modo di creare un innovativo contesto fertile per l’ascolto reciproco, per un rapporto paritario tra i professionisti, per il rispetto dei valori che i clienti stessi portano al tavolo attraverso la riattivazione della comunicazione collaborativa e rispettosa tra le parti.

3) La pubblicazione in Italia del testo di Nancy Cameron “Pratica collaborativa: approfondiamo il dialogo”, di cui hai curato l’edizione italiana, è certamente uno strumento utile per la diffusione di questa pratica. Ce ne puoi parlare?

Questo libro è stato per me (che stavo attraversando, più o meno consapevolmente, questo profondo cambiamento nel modo di lavorare) assolutamente illuminante, e credo che lo possa essere per tanti altri colleghi che hanno scelto di mettersi in gioco per cercare una modalità più utile ed efficace per affrontare i conflitti (soprattutto familiari ma non solo).
Nancy Cameron ha compiuto un lavoro di analisi storica dell’evoluzione dell’idea del divorzio e della difficoltà sociale dell’accettazione della stessa per arrivare a spiegare la messa in discussione della modalità classica avversariale delle professioni che operano su questo tipo di conflitto e darci quindi una chiave di lettura del fenomeno: l’inadeguatezza della la mentalità che contiene in se stessa il bisogno di individuazione di un “colpevole” di fronte ad una nuova visione che vede nella responsabilizzazione degli individui una leva per affrontare le complessità della situazioni e, più in generale, le contraddizioni della società.
Ha analizzato l’insoddisfazione dei professionisti che lavorano in un sistema oppositivo, che presuppone vincitori e vinti, ed implica un esplicito conflitto tra etica personale ed etica professionale. Questo, ci fa notare la Cameron, è avvenuto soprattutto dopo l’entrata delle donne nel sistema giudiziario e in particolare nel mondo dell’avvocatura, ove hanno mostrato una maggiore attenzione all’etica della cura piuttosto che a quella del diritto; soprattutto in ambito familiare dove l’obbiettivo è, o dovrebbe essere, il benessere dei protagonisti del conflitto.
Ma la vera novità che ci trasmette è che, per poter lavorare in modo diverso, devi essere una persona diversa, con ciò chiarendoci che la formazione al nuovo metodo deve necessariamente essere collegata ad un profondo lavoro su se stessi.
La partecipazione personale dell’autrice nel descrivere questo cambiamento emana da ogni sua parola e trasmette quell’idea del necessario coinvolgimento interiore indispensabile anche al professionista per essere pronto a lavorare in modo nuovo. La scelta di volersi mettere in gioco deve essere sentita e profonda perché, come insistentemente ripete la Cameron, è più facile imparare le tecniche del nuovo metodo che liberarsi della tradizionale modalità avversariale, alla quale siamo stati formati e che è la più naturale ed istintiva. Aggiungendo anche che per il legale si tratta di lasciare la parte tradizionalmente più gratificante della professione: l’autorevolezza e il prestigio che la società riconosce, per acquisire valori nuovi e forse meno evidenti, se non ad uno sguardo attento e maggiormente esperto.
Questo libro oltre a dare dunque una visione completa delle implicazioni che l’occuparsi di questa nuova modalità di applicazione del diritto mette in campo, principalmente insiste nel descrivere il “cuore del cambiamento”, fondato, in estrema sintesi, su un ruolo pro-attivo degli avvocati decisamente innovativo, se non addirittura rivoluzionario nell’individuazione dei bisogni e degli interessi dei propri clienti. Un approccio che mirando a costruire capacità di ascolto, fiducia in se stessi e nell’altro, consapevolezza e responsabilizzazione, sia per i clienti che per i professionisti, vorrebbe condurre anche ad un’operazione di rilegittimazione del ruolo stesso dell’avvocatura.

4) Esistono in Italia altri volumi che trattano l’argomento?

E’ stato recentemente pubblicato un nuovo volume curato da Cristina Menichino e Marco Sala “La Pratica Collaborativa dialogo fra teoria e prassi”, che raccoglie contributi di tanti professionisti italiani e non, con l’ambizione di trattare l’argomento nella sua completezza e con un taglio meno personale e discorsivo del libro della Cameron. Direi che ora abbiamo due volumi che possono soddisfare ampiamente ogni esigenza dei professionisti che vogliono conoscere e approfondire il nuovo metodo, nello stato di fatto in cui si trova oggi.

5) Pratica Collaborativa e Mediazione hanno senza dubbio un background culturale analogo. Ma, al di là dell’ovvia differenza che in mediazione opera il mediatore come terzo soggetto neutrale, esistono altri elementi di differenza che in qualche modo meritano di essere evidenziati?

Ritengo che la forza della Pratica Collaborativa stia nella presenza di avvocati formati che sanno “remare” insieme preparando i clienti all’avvio del percorso e poi, man mano, agli incontri successivi; il lavoro collaborativo del team poi fa il resto. L’importanza della preparazione del cliente mi ha da tempo fatto pensare a quanto potrebbe essere utile servirsi di avvocati formati alla Pratica Collaborativa anche nelle mediazioni tradizionali. Resterebbero mediazioni con tutte le caratteristiche proprie di questo istituto, ma sicuramente con una probabilità di successo maggiore.
Non si tratta quindi di confondere i due metodi che restano ben differenti nelle loro caratteristiche fondamentali, ma di insistere sulla necessità di una idonea preparazione per i legali che assistono le parti in mediazione. Con la presenza di due, o più, avvocati collaborativi si potrebbe cogliere al massimo l’opportunità che l’istituto della mediazione offre, non tanto per evitare il giudizio, ma anche, nei casi migliori, per arrivare ad un vero e proprio superamento del conflitto con la riappropriazione da parte di ciascuna delle parti della propria responsabilità individuale.

6) La Pratica Collaborativa nasce nel contesto, molto particolare e delicato, della conflittualità familiare. Secondo te, lo stesso tipo di approccio, o almeno alcuni elementi, potrebbero essere “esportati” in altri ambiti?

Si, e abbiamo iniziato a lavorare in questo senso: l’associazione AIADC (Associazione Italiana Professionisti Collaborativi) ha recentemente istituito dei gruppi di lavoro per indagare sull’applicabilità del metodo in altri campi del diritto: dai conflitti in ambito lavorativo a quelli in materie successorie e societarie, fallimentare, del diritto d’autore e altre ancora. A me personalmente interesserebbe esplorarne l’utilizzo in ambito amministrativo, in particolare approfondire la dimensione collaborativa nei conflitti tra cittadini e pubblica amministrazione, perché ritengo che la preparazione particolare (all’ascolto attivo, al rispetto dell’altro, alla trasparenza, all’apertura verso soluzioni inattese) di ciascuna parte al confronto, unitamente al lavoro di squadra di professionisti formati a parlare una stessa lingua, sia, e qui mi ripeto, la vera forza del metodo collaborativo.

7) Un avvocato interessato ad approfondire il tema della Pratica Collaborativa che percorso deve seguire?

Dovrebbe frequentare almeno un corso base di formazione che organizza l’associazione AIADC. Fino allo scorso anno sono sempre stati chiamati appositamente formatori dagli USA o dal Canada, da quest’anno sono iniziati i primi corsi di formazione (a Bologna e a Treviso) con esperti formatori italiani.
Dopo il primo corso di formazione si diventa professionisti collaborativi e ci si può iscrivere all’associazione (che ha un sito efficiente e attivo in cui i clienti possono individuare i nomi dei professionisti formati al nuovo metodo nella varie città italiane), sapendo tuttavia che il lavoro è ancora lungo perché finché non ci sarà una formazione anche universitaria in questa direzione, il cambio di paradigma che deve individualmente compiere il professionista collaborativo rispetto a come è stato formato è, come ho detto, radicale. Dopo il primo corso base, sarà lo stesso professionista che vuole diventare un bravo collaborativo a sentire la necessità di ulteriore formazione perché si renderà conto che solo portando a compimento il cambiamento riuscirà a lavorare e trattare casi pratici. Una volta completata la trasformazione sarà in grado di trasmettere anche al cliente da un lato il desiderio di mettersi in gioco, dall’altro la fiducia nell’essere affiancato da un professionista che possiede a fondo la conoscenza della materia.
Ognuno sceglierà il proprio personale percorso; io ad esempio ho sentito dapprima il bisogno di formarmi con la Camera Arbitrale alla mediazione civile e commerciale, poi ho voluto approfondire la conoscenza della mediazione trasformativa, che ben si adatta a mio avviso all’utilizzo nella Pratica Collaborativa; avendo conferma che è questa una specializzazione lunga e difficile, che trova nell’esperienza pratica il maggior campo di apprendimento.
A tale proposito credo che i libri di Donald Alan Schön: “Il professionista riflessivo” e “Formare il professionista riflessivo”, di cui consiglio la lettura, pur risalenti ai lontani anni ‘80 e trattando materie non strettamente giuridiche, siano ancora i testi che meglio colgono e descrivono la figura del nuovo professionista, che riflette su quello che fa ed apprende continuamente attraverso l’azione e il suo contesto.
Le riflessioni che si realizzano “nel corso dell’azione” dovrebbero dare significato alle situazioni empiriche in cui si sviluppano le azioni professionali, ed assumere legittimità all’interno della comunità in cui si svolgono pratiche condivise.

8) Esistono dei contesti in cui vi confrontate?

La crescita e diffusione della Pratica Collaborativa è avvenuta attraverso la costituzione di vari practice group in molte città italiane. Queste comunità di pratica si ritrovano periodicamente e al loro interno si sviluppa conoscenza, studio e condivisione. Sono questi anche i luoghi dove i nuovi esperimenti e prodotti conoscitivi realizzati nel corso dell’azione vengono sottoposti ad approvazione, revisione, sistematizzazione per conferire loro valore di conoscenza professionale. Appartenere ad una comunità di pratica significa quindi e soprattutto condividere una analoga visione del mondo.