La conciliazione delegata suscita comprensibilmente molte perplessità nei magistrati, nonchè molti dubbi di carattere pratico. Come scegliere le controversie suscettibili di conciliazione? Quali sono adatte e quali no? Non si “abdica” alla funzione di tutela dei diritti delle parti?
L’Avv. Silvia Pinto fa una riflessione, frutto del dibattito che il Progetto Nausicaa suscita in merito al delicato tema.
I magistrati ed i consulenti delle parti, in particolare gli avvocati, di fronte allo strumento della conciliazione delegata, introdotta nella normativa recente e ancora prima in alcuni protocolli di sperimentazione locale, possono naturalmente manifestare delle reciproche perplessità.
Il magistrato sente la conciliazione delegata come una possibile abdicazione della funzione giurisdizionale e quindi della tutela dei diritti, perciò suggerisce un approccio cauto e sostenuto da idonee garanzie sui soggetti destinatari della delega.
Inoltre, il magistrato s’interroga su quali criteri adottare per scegliere le controversie suscettibili di conciliazione delegata.
Il problema é molto concreto e complesso circa le modalità per affrontarlo.
Come gli studi sulla conciliazione insegnano, più soggetti, coinvolti in una medesima questione se la rappresentano assumendo, a priori, che anche gli altri adottino la medesima modalità di rappresentazione.
Questo approccio, che gli psicologi cognitivi ci dicono essere il portato di un’esperienza evolutiva, di fatto, potrebbe impedire di sviluppare la piena coscienza degli interessi di tutti, in modo da trovare l’auspicata soluzione in modo condiviso.
Il riferimento può essere utile anche al tema di interesse.
Il magistrato, infatti, assume di poter condurre una conciliazione, orientando le parti ad una soluzione che tenga conto della norma giuridica.
Per il magistrato é naturale pensare che, cercando di non anticipare la sentenza, sulla base delle allegazioni e del comportamento delle parti e anche tenuto conto della teoria generale del diritto, egli possa indurre le parti ad una ragionevole composizione del reciproco disaccordo.
Il magistrato sente di poter dare alle parti la massima garanzia di imparzialità, che é uno dei connotati propri dell’esercizio della funzione giurisdizionale. Questo è un pensiero congruo che risiede nella stessa domanda di giustizia; ci si rivolge al giudice proprio per conoscere ciò che é giusto fare; quindi l’elaborazione della conciliazione colta dal magistrato, in termini di propria disponibilità ad orientare le parti, é comprensibile, dal suo punto di vista.
Si aggiunga che anche gli avvocati potrebbero considerare con un certo favore un apporto così connotato, sul presupposto che la lettura pronta degli atti e dei documenti di causa potrebbe inibire certe condotte processuali, di scarsa pregnanza e con mere conseguenze dilatorie che allontanano dalla auspicata decisione.
Tuttavia rimangono delle zone d’ombra che possono essere esposte richiamando le osservazioni che generano i dibattiti sul tema.
Il magistrato che si farebbe autore di una proposta transattiva, indebolirebbe proprio la tenuta della sua imparzialità.
Il magistrato che intende proporre un dialogo costruttivo, sconterebbe la resistenza delle parti che si sentono tenute a legittimare la propria condotta processuale con assetti sostanziali conseguenti.
In buona sostanza, i ruoli che si rivestono in un’aula di tribunale e le regole della comunicazione e le regole dello svolgersi delle relazioni interpersonali, anche in un contesto scevro da carenze organizzative, libero dai carichi giudiziari attuali e connotato da tempi congrui, sono diversi da ciò che si prefigge un procedimento di conciliazione.
Il mediatore non avrà compiti di giudizio, finanche nel momento eventuale della formulazione di una proposta e pertanto, nella relazione con l’altro non dovrà essere persuaso della verità dei fatti, né dovrà verificare se la persona che incontra si trovi nel punto giuridicamente corretto, per ottenere la soddisfazione di ciò che ritiene di meritare. Va da sé che le competenze proprie del magistrato non sono, quantomeno, necessarie al mediatore e che in conciliazione decade il ruolo della parte ed emerge quello della persona, compreso l’eventuale consulente e le regole ed i tempi del procedimento sono elastici e difficilmente precostituiti.
Cosa accade allora in conciliazione?
Accade che casi uguali abbiano soluzioni diverse, ma non per mutamenti giurisprudenziali, per l’entrata in vigore di nuovi assetti normativi, per la riconosciuta validità di un’eccezione preliminare di merito, per una maggiore abilità difensiva dell’uno rispetto all’altro o perché nel primo grado si vince e nel secondo si perde.
Accade qualcosa di semplice e che non mette a repentaglio la tutela dei diritti delle persone: i fatti assurgono per la loro semplice concretezza.
Un fatto concreto non é tale solo per il dato temporale o per il suo contenuto oggettivo, connotati questi che consentono di inquadrarlo anche in termini astratti.
Un fatto é concreto perché si inserisce in un percorso di vita personale che ha i suoi elementi di unicità, oggettivi e soggettivi, che si innestano in un contesto sociale di relazione e di regole della relazione.
La conciliazione non si esime, potenzialmente e tendenzialmente, dalle regole anche giuridiche del vivere sociale; semplicemente essa coglie l’aspetto emotivo di un negozio o di un fatto giuridico e lo considera.
La conciliazione può essere uno strumento efficace, per considerare la componente emotiva che é alla base delle decisioni che si estrinsecano poi in relazioni e in fatti giuridici.
Questo aspetto merita di essere approfondito.
Da esso infatti non discende la conseguenza di dare sfogo all’individualismo, di aprire il varco al più potente rispetto al più debole, di assecondare un atteggiamento emotivo, sia esso di forza o di debolezza, a discapito della legge e dei principi di giustizia sociale che essa persegue e comanda.
Un assunto per comprendere la conciliazione lo offre, ancora una volta, la psicologia cognitiva, secondo cui le decisioni umane sono necessariamente, se non preliminarmente, modulate su una componente emotiva.
Disconoscerlo può produrre l’effetto di un’ingiustizia sostanziale, non tanto perché chi era in buona fede si ritrovi ad avere torto, per non aver rispettato le regole giuridiche o si ritrovi perdente perché una sentenza arriva troppo tardi o perché l’efficacia esecutiva rappresenta un costo che azzera l’utilità rappresentata dalla sentenza stessa.
L’ingiustizia sostanziale é rappresentata dal significato che assume il conflitto nel processo, se inteso unicamente come contrasto di posizioni che, nella dialettica del contraddittorio, possono portare all’unica verità possibile, quella processuale.
Beninteso non si intende indebolire questo approccio che, anzi, si ritiene necessario strumento democratico.
Si intende stimolare la riflessione sulla parzialità dell’efficacia dello strumento, inteso come servizio volto a dirimere i contrasti.
Il conflitto può generare al suo interno soluzioni di utilità globale, in un assetto integrativo delle reciproche posizioni e non già distributivo delle risorse contese.
E’ per il conseguimento di questo fine che in conciliazione si considera la componente emotiva, perché la sua comprensione ingenera nella persona che la sente riconosciuta un atteggiamento volto al superamento del problema.
Questo ancor prima e ancor più del considerare gli aspetti umani dell’offesa, dell’aggressività verbale che possono peraltro configurarsi anche come tattiche distributive e di pressione negoziale.
La componente emotiva é per il mediatore un mezzo di lavoro e la conoscenza degli strumenti per decodificarla, offerti dalla psicologia cognitiva, é utile all’esercizio della sua professione.
In questo senso dovrebbe risultare chiaro anche all’avvocato che la propria formazione e la propria esperienza potrebbero non essere sufficienti a svolgere il ruolo di mediatore.
E’ chiaro che sia il magistrato, sia l’avvocato hanno esperienza della casistica delle relazioni interpersonali sottese ai rapporti giuridici, ma entrambi sanno che non é solo nel processo che tali relazioni si esauriscono e si completano.
La conciliazione pertanto potrebbe porsi come servizio alternativo per i casi che lo richiedono.
Ciò, in qualche misura, potrebbe essere confermato dalla lettura di almeno due norme processuali civili che , nella loro applicazione, potrebbero aumentare la distanza tra la concretezza del fatto, nei termini evidenziati sopra e l’astrattezza della decisione che si potrebbe fondare su una deposizione testimoniale scritta (art. 257 bis c.p.c) e si esprime con la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, espungendo dal provvedimento lo svolgimento, in particolare, del processo (art. 132 c.p.c.).
Se in queste norme, come in precedenti riforme, si può cogliere una tendenza, più o meno consapevole, di perseguire con l’azione e la difesa giudiziale, l’affermazione dei principi di diritto che si devono naturalmente evolvere nella loro applicazione pratica, é forse anche in questo contesto che si può trovare qualche spunto per orientarsi nel difficile tema intorno all’individuazione delle controversie che potrebbero essere oggetto di conciliazione delegata.
La premessa che si può assumere come base di riflessione é che la conciliazione persegue la realizzazione di una relazione e di una negoziazione di tipo integrativo, in cui la concessione di una parte possa risultarle meno costosa di quanto risulti invece vantaggiosa per l’altra.
A dispetto di quanto siamo naturalmente portati a credere, molte negoziazioni o controversie che riteniamo di carattere meramente distributivo, di una risorsa non suddivisibile, sono invece di tipo misto, cioè contengono anche aspetti ove gli interessi reciproci possono integrarsi.
Ad un primo esame la più parte delle controversie portate in giudizio appaiono di natura distributiva, ma ciò é dovuto proprio a causa delle regole del processo che é opposizione di posizioni. Quindi questo elemento potrebbe essere fuorviante.
Certo ci sono le controversie cosiddette minori, per le quali il costo supera l’utilità economica rappresentata dalla sentenza e per le quali la conciliazione potrebbe assurgere a proficua risorsa, ma non é detto che essa possa essere sempre un’utile alternativa, quando ad esempio la parte ricerca l’affermazione di un principio di diritto.
L’indagine sull’elevato grado di conflittualità tenuto dalle parti, che meglio potrebbe esprimersi in conciliazione, sconta il fatto che esso é divenuto sempre più una modalità di comunicazione sociale e non un elemento di discernimento, per orientarsi nella scelta.
Anche l’aspetto della durata del rapporto nel tempo potrebbe prestare il fianco a dei dubbi, allorquando é proprio nel carattere durevole o obbligato del rapporto che risiede la ragione della controversia.
Sicuramente il quadro prospettato non é esaustivo, ma può rendere l’idea della difficoltà che può incontrare un magistrato nel valutare la natura della causa, per cui invitare le parti ad una conciliazione delegata.
Con lo spirito creativo che infonde la speranza delle idee, proprio della conciliazione, mi chiedo se ai tanti criteri non se ne possa aggiungere uno, per così dire, pratico e congruente con la realtà.
Quanti avvocati fanno fatica ad essere pagati dai propri clienti, quanti avvocati giovani incontrano difficoltà ad inserirsi in un mercato del lavoro asfittico, quanti clienti non sono soddisfatti del lavoro dei propri avvocati, per motivi di lunghezza e di lentezza delle procedure, queste considerazioni costituiscono un patrimonio diffuso che offusca il senso della dignità professionale. Eppure l’avvocato sente, al pari del magistrato, che la sua funzione é essenziale ed é egli stesso frustrato da un sistema in affanno.
L’interesse di avvocati e di magistrati appare il medesimo, lavorare in e per un sistema giudiziale efficiente. Se l’avvocato afflitto dai problemi sopra accennati, sente il valore del servizio che rende al cliente portandolo in conciliazione, saprà anche cooperare con il magistrato, per definire l’opportunità sulla scelta della conciliazione delegata.
Questa riflessione nasce dalla partecipazione da parte di alcuni magistrati delle loro preoccupazioni sulle implicazioni della conciliazione delegata e sulle critiche mosse da alcuni colleghi sull’ennesimo rinvio di un sistema obbligato; non ha la pretesa di risolvere i problemi né di proclamare il sicuro successo della conciliazione, ha il solo fine di contribuire ad un ragionamento condiviso tra avvocati e magistrati, nella consapevolezza che solo con la loro cooperazione il mediatore potrà inserirsi anche come strumento che consenta agli stessi di perseguire il funzionamento efficiente del sistema giustizia. Per farlo vale la pena di provare a credere che delegare una causa in conciliazione non comporti abnegazione di giustizia e che tentare una conciliazione non sia un formalismo inutile.
Avv. Silvia Pinto, conciliatore del Servizio di Conciliazione della Camera Arbitrale di Milano