Mediazione nei contratti bancari: le opportunità da scoprire

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di Eugenio Vignali*

La Legge 9 agosto 2013 n. 98 ha sanato gli effetti della sentenza della Corte Costituzionale n. 272/2012, ed ha reintrodotto l’obbligo preliminare di esperire un tentativo di risoluzione stragiudiziale delle controversie anche in materia di contratti bancari.

Ciò può avvenire attraverso il ricorso a un Organismo di mediazione iscritto nell’apposito registro del Ministero della Giustizia. In alternativa la legge consente di utilizzare il procedimento previsto presso l’Arbitro Bancario e Finanziario. Nella sua relazione per il 2012 l’ABF indica che nel corso dell’anno sono pervenuti 5.653 ricorsi e che le decisioni assunte sono state più di 4.000. Nello stesso periodo (gennaio-dicembre 2012) i dati del Ministero della Giustizia indicano in 11.249 i procedimenti di mediazione in materia di contratti bancari iscritti. Dunque sembra esservi stata in passato una sensibile preferenza per il ricorso allo strumento della mediazione, percepito forse come meno aggiudicativo e più flessibile dal punto di vista negoziale.

A distanza di pochi mesi dal ripristino della condizione di procedibilità, accompagnata da importanti novità procedurali (prime fra tutte l’introduzione di un incontro preliminare di programmazione e l’obbligo dell’assistenza legale già a partire da detto incontro), può  essere interessante verificare quale sia il comportamento delle parti convenute nelle controversie in materia bancaria.

Senza la presunzione di fornire dati assoluti, uno stretto giro di confronto con colleghi di organismi diversi (pubblici e privati) ha messo in luce l’ecletticità del comportamento degli istituti bancari chiamati in mediazione. Infatti, a fronte delle sempre più numerose sentenze favorevoli ai clienti delle banche, ve ne sono alcune che sembrano aver sposato lo strumento, almeno nella fase propedeutica dell’incontro di programmazione, mentre altre si sottraggono per prassi al confronto davanti al mediatore. Emergono poi alcuni interessanti distinguo: la risposta alla convocazione sembra a volte dipendere anche dal funzionario o dal legale incaricato di gestire il contenzioso, i quali filtrano le domande sulla base di valutazioni non sempre chiare nelle loro motivazioni.

Di fronte a una parte che non si presenta nemmeno all’incontro di programmazione, il cui costo è ridotto alle sole spese di segreteria (più l’assistenza legale) e ignora sia le possibili conseguenze che derivano dall’Art. 116 C.P. (richiamato dall’Art. 8 del D.Lgs 28/2010 come modificato dalla Legge 98/2013) sia l’applicazione di una sanzione di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio  in caso di mancata partecipazione senza giustificato motivo (ancora l’Art. 8), viene effettivamente da chiedersi quali possano essere le motivazioni dietro tale scelta.

Banalmente, si potrebbe pensare a un mero calcolo di convenienza economica, riproponendo la classica strategia di confronto che punta sulla lungaggine dei procedimenti civili, ma parlando con alcuni avvocati specializzati nella materia e con consulenti che si occupano di calcolo dell’anatocismo bancario, emerge invece che diversi istituti di credito preferiscono saltare il passaggio in mediazione per cercare direttamente una transazione con il cliente. Ciò avverrebbe tantopiù quando vi è stata (o è stata minacciata) un’iniziativa anche in sede penale oltre che civile. A parere dello scrivente, tale approccio sembra non considerare (si legga: conoscere) la reale natura dello strumento della mediazione e, comunque, i generali benefici del cercare un accordo con l’assistenza di un terzo professionista indipendente e neutrale.

Contrapporre perizie tecniche di parte e giurisprudenza della Cassazione sull’anatocismo a un cliente che, puntando alla rinegoziazione della sua posizione debitoria verso una banca, sceglie di sollevare la questione del ricalcolo degli interessi passivi a lui applicati sul conto corrente o sui finanziamenti ricevuti, può non portare ad alcun risultato concreto, poiché non è affrontato il reale problema di fondo che ha spinto quella persona ad agire in contrapposizione al “suo” istituto di credito.

E’ sicuramente vero che, anche in sede di transazione diretta fra le parti, è possibile espandere l’oggetto della discussione fino ad includere aspetti ulteriori del loro rapporto contrattuale ed economico, ma è difficile che tale “ampliamento”, o cambiamento di livello, quando proposto direttamente da una delle parti, sia accolto come il positivo emergere del suo reale interesse e non, piuttosto, come una strategia negoziale per ottenere di più o per forzare la posizione altrui.

Molto più efficace si rivela dunque, in tali casi, l’intervento di un terzo che conduce le parti a incontrarsi là dove vi può essere un concreto sbocco, considerando che, se l’accordo deve soddisfare entrambi, la soluzione riguarda invece principalmente il problema di chi ha sollevato la questione. Tutto ciò con il “bonus” dell’attenzione che il mediatore ha al mantenimento del rapporto fra le parti, che da una buona mediazione può uscire addirittura consolidato.

Inoltre, in  generale, sarebbe un grande passo in avanti nella gestione delle controversie con i clienti-consumatori delle banche (ma non solo) se si affrontassero i reclami più come una questione “commerciale” che una questione strettamente “legale” di applicazione dei termini contrattuali.

Dico questo perché troppe volte chi rappresenta l’azienda fornitrice del servizio, quando  viene in mediazione si trova con le mani legate dal mandato ricevuto (ma da quale organo interno all’azienda?) e facilmente si finisce in un vicolo cieco fatto di affermazioni quali: “Io di questo aspetto non posso dire niente”; “Su questo non ho alcuna competenza”; “Di questa cosa dovrebbe parlare direttamente con …”; “Devo sentire la Direzione …”; ma anche, più semplicemente, “Io non sono un tecnico per cui su questa cosa non posso risponderle”.

Infine vale la pena accennare anche alla generale possibilità di avere al termine di una mediazione un titolo immediatamente esecutivo (che deriva dall’accordo sottoscritto dai legali delle parti) e ai vantaggi fiscali quali il credito d’imposta (che di fatto compensa le spese di mediazione per controversie di valore fino a 50.000 euro con la maggior parte degli organismi) e alle agevolazioni in termini di imposta di bollo, di registro, ecc.

In conclusione di questi brevi spunti di riflessione non posso che ripetere l’auspicio di una sempre maggiore diffusione della cultura della mediazione, che porti anche gli istituti di credito ad apprezzare e sfruttare appieno le potenzialità della mediazione quale strumento di conciliazione (mi si lasci usare questa bellissima parola) delle controversie con i loro clienti.

*Mediatore civile e commerciale – consulente aziendale