Intervista a Machteld Pel

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Machteld_PelIl processo che porta alla creazione di un’opinione o di un giudizio è complesso e per la maggior parte inconscio. Con riferimento al cervello del mediatore, si tratta di una problematica che non dovrebbe essere sottovalutata per le conseguenze che potrebbe avere sulla modalità di intervento. Machteld Pel è una mediatrice molto ben preparata, attenta ed appassionata, è formatrice, coach e fondatrice di Pel Mediation (http://www.pelmediation.nl/). Inoltre, la sua esperienza come ex-giudice fa di lei un punto di vista molto prezioso per comprendere dall’interno come cornici ed atteggiamenti mentali possano operare in modo positivo o rischioso nel cervello del mediatore. Non sarà difficile (né pericoloso) giungere ad un’opinione e ad un giudizio molto positivi sull’approccio di Machteld.

La mediazione viene, talvolta, ancora descritta come volta soprattutto ad evitare i costi e la durata di un processo. Anche se sta per superare i 40 anni di età (e più), non è sempre facile sottolineare come la mediazione possa portare a risultati che sono semplicemente differenti, non solo in relazione al tempo ed ai soldi che si possono spendere. In generale, l’intersezione tra mediazione e giudizio è talvolta nebbiosa. Machteld, la tua esperienza professionale fornisce un impareggiabile punto di vista su questo argomento. Come ti sei avvicinata alla mediazione, e perché?
Bene, qui c’è il perché ed il come io mi sia interessata e sia stata coinvolta nella mediazione. Come giudice sono stata coinvolta nel sistema giudiziario per circa 30 anni. Ho visto e vedo il sistema aggiudicativo come una modalità di risoluzione dei conflitti. Quando iniziai come giudice in casi civili e familiari, 32 anni fa, il mio scopo era aiutare le persone a risolvere il loro conflitto, rendendo loro possibile proseguire con le loro vite e quindi aiutarli a creare un’armonia tra loro. Inutile dire che tale spinta si è rivelata irrealistica. Questo perché, quando i conflitti sono “tradotti” in controversie legali, la loro risoluzione non necessariamente risolve il conflitto soggiacente. Con il crescere della mia esperienza nell’approccio avversariale in Tribunale nell’arbitrato, poi, fui sempre più consapevole del fatto che vincere una causa non significa che tutti i problemi tra le parti siano risolti. Specialmente nei casi in cui è implicata una relazione di durata (commerciale, di lavoro, di famiglia, di collaborazione), il risultato di una causa raramente offre una vera risoluzione al conflitto che vive al di sotto della controversia legale. Certamente ci sono casi in cui una decisione legale è richiesta, oppure offre alle parti un risultato soddisfacente con cui potranno vivere. Ciononostante, ho avuto spesso l’impressione che, qualunque sarebbe stata la mia decisione, i problemi sottostanti non sarebbero stati veramente risolti in un modo accettabile e soddisfacente per entrambe le parti.
A metà anni novanta questa esperienza mi portò a seguire dei corsi di formazione sugli ADR come mezzi per apprendere vari metodi di risoluzione delle controversie e per imparare a giungere ad una risoluzione dei conflitti flessibile. Da allora, la mia trasformazione da giudice orientato versi i contenuti legali a mediatrice orientata agli interessi ha iniziato a progredire. Certamente questo necessita molta riflessione, la costruzione di nuovi punti di vista su vecchie e nuove esperienze, e formazione.
Sono inoltre stata fortunata ad essere stata invitata a divenire leader di alcuni progetti pilota sulla mediazione court-annexed nei Paesi Bassi e, successivamente, a divenire la direttrice del servizio di Mediazione collegato alla Corte Olandese. In tale posizione sono stata strumentale all’attuazione ed al consolidamento del sistema olandese della mediazione court-annexed all’interno del sistema giudiziario dei Paesi Bassi. Ero già stata per molto tempo nella fortunata posizione di formatrice di giudici in tecniche di intervento in mediazione. E dal 1999, con alcuni colleghi e prominenti psicologi olandesi esperti di queste tematiche (Martin Euwema ed Ellen Giebels), ho iniziato a sviluppare un sistema di diagnosi dei conflitti che può essere usato da giudici e mediatori, in entrambi i contesti e gli approcci. Ciò mi ha reso consapevole – ancor più di prima – delle differenze e similitudini esistenti tra le due professioni.
Due anni fa ho appeso la toga ed ora lavoro come mediatrice, come consulente per la creazione di sistemi di promozione della mediazione nelle organizzazioni e come formatrice di mediatori e giudici, nei Paesi Bassi ed all’estero. Ho scritto un libro su tale argomento: Referral to mediation, 2008 (vedi www.pelmediation.nl)
Dalla tua prospettiva, e considerando la possibile percezione delle parti, quali sono i vantaggi per un giudice nell’essere un mediatore?
Dal mio punto di vista, il giudice non è un mediatore ed il mediatore non è un giudice. Ciò che intendo dire è che quella di giudice e quella di mediatore sono due professioni differenti. Entrambi questi professionisti lavorano su casi in cui esiste un conflitto, ed entrambi hanno i loro metodi, non intercambiabili. Entrambi questi professionisti devono attenersi alle regole delle loro professioni e sapere ciò che stanno facendo e ciò che può essere per loro valido in termini di livello di qualità applicabile alla loro professione.
Le persone che si trovano dinnanzi ad un giudice o ad un mediatore sono coinvolte soprattutto in conflitti che non riescono a gestire più autonomamente. Quindi, tanto il giudice quanto il mediatore devono essere abili a comunicare con loro in modo tale da potersi concentrare sui problemi esistenti e da soddisfare le necessità procedurali. Per il resto, i punti di partenza e le modalità di giudizio e di mediazione sono ampiamente differenti.
Per il giudice, la domanda principale è: chi ha (legalmente) ragione e chi (legalmente) è nel torto? Questo porta giudice, avvocati e parti nel passato, nelle questioni legali e procedurali circa l’onere della prova e l’interpretazione di fatti, contratti e legge. Il mediatore non ha uno scopo prioritario in quanto tale. Le parti introducono il conflitto, i loro interessi soggiacenti, le loro speranze per il futuro e le loro necessità legate alla risoluzione del problema. Il mediatore si limita a stabilire connessioni tra le parti, aiutandole a parlare in un modo per cui sia possibile per loro risolvere il conflitto in modo sostenibile. Certamente le domande sul contenuto possono essere di qualche importanza, ma molto raramente il merito è determinante per la risoluzione del conflitto. Aiutare le parti a scoprire i loro interessi soggiacenti ed a focalizzarsi su di essi in una controversia è la funzione principale di un mediatore ed un fattore critico in una procedura di mediazione di successo. Mi piacerebbe, quindi, cambiare la tua domanda in: Secondo il tuo punto di vista, e considerando le possibili percezioni delle parti, quali sono i vantaggi per un mediatore che è stato (o ancora è) un giudice?
Come ho spiegato e affermato precedentemente, il metodo legato al giudicare ed al mediare sono totalmente differenti, quindi la difficoltà per un giudice che voglia diventare un mediatore consiste nel non sentirsi più responsabile per il contenuto del risultato, nonché nell’incoraggiare le parti e gli avvocati ad assumersi le loro responsabilità ed a rendere a loro stessi possibile la risoluzione dei problemi.
Il vantaggio per un mediatore che è stato un giudice consiste nella sua esperienza proveniente dall’aver interagito con molte parti (avvocati, clienti in conflitto), nel non sentirsi imbarazzato nell’ascolto di punti di vista davvero differenti e nell’incontrare persone arrabbiate. Un altro vantaggio consiste nel fatto che le persone danno prontamente fiducia ad un mediatore che sia stato un giudice, dal momento che appare affidabile quanto ad assenza di distorsioni ed integrità. Un altro vantaggio consiste nell’aver studiato molte tipologie di casi, quindi il linguaggio delle differenti situazioni commerciali è familiare e da mediatore si può parlare e comprendere quel gergo.
Un altro vantaggio che riscontro personalmente consiste nel fatto che i giudici nei Paesi Bassi hanno il dovere di tentare una composizione transattiva in corte. Questo metodo di risoluzione è (o, dovrei dire era) molto personale. A seconda del giudice, si cerca di convincere o “sedurre” le persone ad accordarsi in corte parlando loro del merito della controversia e dell’interesse a raggiungere una transazione oggi anziché aspettare molto tempo prima del termine della causa. Avendo sviluppato un metodo di formazione per giudici e mediatori sull’analisi del conflitto ed avendo provato a modificare le modalità di gestione delle sessioni conciliative dei giudici, sono divenuta sempre più consapevole della differenza tra il transigere una causa sulla base degli elementi legali del caso ed il mediare sulla base degli interessi, utilizzando il merito solo come uno standard oggettivo per conoscere quale sarebbe la BATNA. (A proposito, si veda Customized conflict resolution: Court connected Mediation in The Netherlands 1999 – 2009, The Judiciary Quarterly, Machteld Pel, and Lia Combrink,  2011, p 25 – 53, Netherlands Council for the Judiciary. Scaricabile da www.pelmediation.nl/publications)

Molti vantaggi di sicuro. Ma hai mai percepito qualche difficoltà, come giudice o ex-giudice, durante una mediazione? Il tuo “cervello di giudice” si è mai ribellato contro (o non ha mai interferito con) il tuo “cervello di mediatrice”?
Sì, certamente, quando ho iniziato è stata una sfida molto difficile passare da un’attitudine centrata sul contenuto ad una centrata sul processo. I giudici sono responsabili per un processo equo e per il contenuto del risultato. Quindi, i giudici sono –senza dubbio- sempre preoccupati dal contenuto della controversia, dalle conseguenze legali e dalla decisione. Serve quindi un vero cambiamento di attitudine e di abilità per diventare un mediatore, per lasciare la responsabilità relativa al risultato completamente alle parti e per dar loro fiducia sulle loro capacità di decidere per loro stessi. In mediazione il mediatore è concentrato sulla diagnosi del conflitto, su ciò che ostacola la strada alla sua risoluzione e sull’aiutare le parti a comunicare ancora con successo ed in modo ragionevole, a riottenere la responsabilità circa la loro vita, il loro lavoro e gli interessi in gioco.
E’ inoltre completamente inusuale avere sessioni private e parlare con una parte alla volta. Ciò non è consentito ai giudici nei Paesi Bassi. Ritengo i caucus molto utili ed efficaci. C’è certamente una continua inclinazione a pensare al posto delle parti ed a suggerire una “bella” soluzione per esse. D’altra parte, mi trovo ora così convinta dell’utilità, per le persone, di disegnarsi le proprie soluzioni che la tentazione di interferire è svanita negli anni.

La tua visione sembra connessa più agli aspetti profondi del conflitto che alla sua superficie. Machteld, hai parlato di un sistema di diagnosi del conflitto che hai sviluppato con Martin Euwema ed Ellen Giebels. Di cosa si tratta e, più in generale, come vedi il conflitto?
Beh, rispondere approfonditamente a questa domanda potrebbe richiedere ore. Quindi darò una risposta piuttosto breve. Euwema e Giebels sono entrambi professori di psicologia e sono autori di un libro sulla gestione del conflitto. Questo libro contiene una modalità specifica per diagnosticare un conflitto e vedere il conflitto da angoli e prospettive differenti. In quel periodo ero responsabile, per il settore giudiziario olandese, dello sviluppo di un corso per giudici sulla diagnosi del conflitto, per permettere loro di comprendere più efficacemente se le parti fossero da indirizzare con più successo alla mediazione, alla transazione in Corte oppure alla decisione giudiziaria. Mentre stavo lavorando con loro, chiesi loro di permettermi di utilizzare il loro sistema per sviluppare uno strumento specifico per giudici per la diagnosi delle controversie. Quando accettarono, abbiamo sviluppato insieme un questionario sulle sette prospettive che avevano precedentemente descritto nel loro libro. Tali sette “prospettive” iniziano con la lettera I:
Individui: Chi sono i soggetti coinvolti, quali sono le loro caratteristiche?
Interazione: Qual è stata la storia e la escalation del conflitto e quali ne sono le cause?
Interessi e Problematiche: Quali sono? (abbiamo composto una lista degli interessi, vedi il mio libro precedentemente citato)
Interventi: Cos’è stato fatto per risolvere il conflitto e cosa non ha avuto successo?
Interdipendenza: Come sono collegate le parti e qual è l’equilibrio di potere?
Istituzioni: Ci sono dei referenti? Quali sono le rispettive culture sul conflitto?
Implicazioni: Quali sono i costi ed i benefici del conflitto o della controversia e quali sono gli incentivi alla risoluzione?
Su tale base abbiamo sviluppato una specifica formazione per giudici ed abbiamo creato una struttura per le sessioni di mediazione in Corte, per cui abbiamo adeguato tali domande. A parte ciò, utilizzo lo strumento di diagnosi del conflitto come mediatrice, cosa che trovo molto utile, ed ho inoltre sviluppato una formazione per mediatori ed avvocati che renda loro possibile e li aiuti a scegliere, in dialogo con i clienti e gli avvocati, il metodo migliore di risoluzione del conflitto.
Come vedo il conflitto? Come sai, ci sono generalmente due attitudini verso il conflitto:
1. I conflitti devono essere evitati, e portano infelicità oppure
2. I conflitti portano consapevolezza delle necessità per ottenere cambiamenti interni o esterni alle persone…
Quando sono divenuta giudice, supportavo totalmente la prima attitudine, ma negli anni sono cambiata. Credo che i conflitti dimostrino che c’è qualcosa di importante in gioco per qualcuno e che la consapevolezza dell’esistenza di un conflitto apra la possibilità di sentire la necessità di cambiamento. Certamente, in molti casi tali opportunità non sono colte e, con l’escalation del conflitto, le persone possono creare veri abissi relazionali o qualcosa che non è più salutare per esse. D’altra parte, i professionisti realizzano sempre di più quali siano i vantaggi che la mediazione offre nella risoluzione dei conflitti dei loro clienti.

Come le tue passate esperienze professionali hanno influito sul tuo approccio alla mediazione, e –in pratica- come si riflettono sul tuo modo di condurre una mediazione?
Come mediatrice lavoro a differenti tipologie di casi: casi commerciali nazionali ed internazionali (contrattualistica, sviluppo di progetti, IT, ecc.), conflitti di lavoro o di cooperazione tra professionisti o tra gruppi di professionisti nelle società e nel settore medico; opero anche tra municipalità e sviluppatori di progetti. La principale sfida, per me, è cercare di comprendere me stessa, e permettere alle persone in mediazione di comprendere ciò che veramente è significativo per loro e ciò che ha reso loro impossibile prevenire e risolvere il conflitto autonomamente, e da lì condurli a modalità di risoluzione che essi stessi possano intraprendere. E’ una vera soddisfazione essere capaci di avere un reale contatto interpersonale e portare le persone ad una riflessione autonoma e ad un movimento verso il futuro, contrapposti al rimuginare sul passato. Il mio lavoro internazionale (con JAMS) mi offre la possibilità di avere a che fare con le differenze culturali, così come con altri aspetti del conflitto.
Il mio approccio di mediatrice è “personalizzato”. Molte persone mi scelgono come mediatrice per il mio retroterra culturale; posso fare valutazioni se lo vogliono. Anche quando è questa la ragione per cui mi hanno nominata come mediatrice, non si arriva sempre ad una mediazione valutativa. La maggior parte delle volte appare chiaro che la discussione sul contenuto non è il vero nodo del conflitto; esso spesso consiste nella carente comunicazione, nelle incomprensioni, in problemi economici, ecc.. Mi piace iniziare le mediazioni con un questionario scritto in cui chiedo informazioni sul retroterra e la storia del conflitto, gli incentivi delle parti a risolverlo ed i loro interessi soggiacenti. Le parti mi rispondono in privato, quindi possono essere veramente oneste ed aperte. Quando iniziamo la mediazione, di solito apriamo con una sessione congiunta dopo la quale, quando inizia la negoziazione, faccio molte sessioni private. In generale nei Paesi Bassi la sessione di una giornata non è pratica comune. Nei grandi conflitti commerciali inizio sempre con una sessione di una giornata e successivamente, se necessario, continuiamo con sessioni più brevi, sessioni private telefoniche, ecc.. Le mediazioni, di regola, non eccedono un massimo di 10 ore, ma talvolta ne occupano un numero maggiore. E, ogni tanto, si concludono in 4 ore.

Machteld_PelMachteld Pel (http://www.pelmediation.nl/index.php?id=24) è stata un giudice di appello e vice-presidente (in casi civili e commerciali) per 22 anni, fino al Marzo 2010. Prima di allora è stata giudice di distretto per 8 anni e professoressa, negli ultimi 30 anni, in diversi ambiti del diritto ed in materia di competenze giudiziarie.
Arbitro e mediatrice qualificata (accreditata NMI), attiva a livello nazionale ed internazionale (JAMS international) e mediatrice-formatrice dal 1998, Machteld Pel è attiva nel settore della contrattualistica, commerciale, del lavoro, dell’educazione, sanitario e familiare. E’ stata responsabile per lo sviluppo e l’attuazione della mediazione court-annexed nei Paesi Bassi ed ha diretto il servizio di mediazione court-annexed olandese dal 1999 fino alla fine del 2011. Nel corso degli ultimi dieci anni è stata coinvolta nella consulenza, nella formazione, nel coaching e nella pubblicazione. E’ stata individuata come esperta o consulente per materie afferenti agli ADR in molti paesi europei, in Russia e nel Medio Oriente.

di Corrado Mora