Il mediatore civile e commerciale è quella creatura uscita dalle cucine del contenzioso con l’investitura ufficiale da parte del d.lgs.28 nel 2010 e che, per sopravvivere in questi affannati 12 anni di legittimazione, ha cambiato pelle e modificato il suo stile tante volte quante le modifiche normative o quelle derivanti dalle best practices hanno preteso o incoraggiato.
Una breve vita a prendere ceffoni a volte, a essere denigrati altre e a essere ignorati per la maggior parte del tempo. E a sentir parlare della propria sorte, a fase alterne appesa al sottile filo deputato a risollevare le scarse performance del contenzioso civile, come se non fosse presente. Hai voglia a urlare: «Scusate, sono qui. Se parlate di me, fate almeno finta di saperne qualcosa…». È evidente che il filtro dell’invisibilità esiste e l’abbiamo inventato noi.
Il mediatore civile e commerciale (MCC) è così rassegnato alla poca considerazione che si lamenta di rado e di solito solo con i colleghi mediatori, come gli anziani con gli acciacchi dell’età. Non spera nella solidarietà altrui, cerca di non farsi notare troppo e, se chiude un incontro di mediazione senza incassare improperi dagli avvocati o dalle parti per il suo ruolo o per la procedura, lo considera un successo. Arrossisce se gli fanno un complimento, il che ha più a che fare con la Sindrome di Stoccolma che con la timidezza. E comunque subito dopo sente di aver adempiuto al suo apostolato di convertire gli avvocati alle ADR meglio di un gesuita con il cristianesimo.
Il MCC ha ridotto i propri bisogni all’essenziale, abbracciando di fatto il “respirianesimo”: solo acqua e aria, come le piante (con qualche eccezione carnivora). In questo modo può dedicarsi alla sua attività proclamando che si tratta di una missione, «signora mia, non lo si fa certo per i guadagni…». E se missione deve essere, poco importa il valore della controversia: lotta come un leone e senza limiti di tempo per strappare il consenso al proseguimento della mediazione anche per la pratica più misera e modesta, dimostrando così un sostanziale fraintendimento dell’esortazione “Se incontri il Buddha per la strada, uccidilo”, tradotto in casi come questi nel “finire a mazzate il commercialista dentro di sé”.
Il MCC non lancerebbe mai della zuppa su un’opera d’arte per attirare l’attenzione né infarcirebbe il verbale di mancato accordo, all’insaputa delle parti, di termini volgari e inopportuni per dimostrare che i giudici quel documento non se lo filano di pezza. Lavora sodo e correttamente, convinto che la sua ricompensa (se è di buonumore) o la sua vendetta (se è di cattivo umore) arriverà in questa vita.
Accoglie con il ghigno di chi la sa lunga le proposte di riforma, consapevole che sono affidabili come il contenuto del biscotto della fortuna. A volte sopraggiunge un moto di indignazione per la scarsa considerazione di cui gode la categoria dei mediatori, che poi si stempera negli incontri tra addetti ai lavori quando si tessono le lodi della mediazione senza la presenza di alcun contraddittorio.
Attualmente il MCC sta come color che son sospesi, nel limbo ad attendere che il Virgilio che in questo tempo la mediazione si può permettere, Carlo Nordio, spronato dalla riformatrice Beatrice/Cartabia, lo conduca nella mediazione release 3.0. Vorrebbe allungare il passo e avvicinarsi al 30 giugno 2023 ma teme di inciampare nell’ennesimo pavido lifting al D.M. 180, atteso e temuto allo stesso tempo. Pensa in cuor suo di aver già percorso tutti i gironi dell’inferno, fino quasi a toccare l’ex ministro Bonafede, e di meritarsi il paradiso ma è rassegnato al purgatorio, altri cinque anni di purgatorio per dimostrare che la mediazione funziona.
Intanto lucida il suo cappello da piazzista, quello che sfoggia in ogni primo incontro, insieme a tanta pazienza e cortesia, per declamare la magnificenza della mediazione e di tutte le opportunità che si porta appresso. Lo utilizzerà ancora per qualche mese prima di portarlo in soffitta o al Monte dei pegni, in cambio di un pezzo del proprio tempo almeno un po’ remunerato.