Chissà se Michael Ende, l’autore del più conosciuto “La storia infinita”, quando nei primi anni ‘70 scrisse il libro “Momo” avesse piena consapevolezza della lungimiranza, saggezza e profondità del suo racconto e di quale metafora universale fosse.
Momo è un libro che indossa le vesti di una fiaba per bambini ma parla agli adulti. Momo è il nome di una bambina analfabeta, senza genitori e dall’origine misteriosa, che vive tra le rovine di un anfiteatro di un posto che ricorda tanto l’Italia ed è adottata dall’intera comunità grazie soprattutto alla sua capacità di ascolto. Rivolgendosi a lei, le persone trovano risposte alle loro domande e si riappacificano dopo una lite.
Questa piccola e dotata mediatrice vive un’armoniosa quotidianità fino a quando non diventa scarsa una risorsa fondamentale: il tempo. I “Signori Grigi”, che si professano agenti della cassa di risparmio del tempo, arrivano nella cittadina di Momo e convincono tutti gli abitanti ad affidare a loro il tempo libero che hanno, con la prospettiva di accumularlo per il futuro. Ma, in realtà, il tempo sottratto è ciò che serve ai Signori Grigi per sopravvivere.
E così nessuno più ha tempo per la bambina e nemmeno per se stesso.
Poiché spero di aver solleticato la curiosità sul racconto, evito lo spoiler e mi concentro sull’argomento “tempo”, non prima, tuttavia, di aver nominato un’alleata importante di Momo, cioè la tartaruga “Cassiopea”, che riesce a prevedere il futuro che accadrà dopo mezz’ora, e due fidati amici: Beppo Spazzino e Gigi il cicerone, una guida turistica improvvisata ma molto creativa, capace di inventare storie sempre diverse sull’anfiteatro, a beneficio dei visitatori.
Al tavolo di mediazione spesso sono seduti con noi anche i Signori Grigi: sono quelli che vanno di fretta e vogliono concludere presto l’incontro. E sono anche quelli che consumano il tempo a disposizione senza riempirlo di contenuto.
Uno degli elementi di cui necessita la mediazione è il tempo: quello per consentire al mediatore di fare bene il proprio lavoro, quello per accettare e metabolizzare ciò che si è ascoltato, quello per ridimensionare le proprie emozioni e guardare al conflitto da una prospettiva più razionale, quello per far diventare più familiare un’idea o una proposta che, di primo acchito, crea repulsione. Eppure è una risorsa che spesso le parti e i loro avvocati non sono disposti ad investire; va bene aspettare anni per una sentenza ma non impiegare alcune mezze giornate per trovare un componimento bonario.
Certo le statistiche ministeriali ci dicono che la durata media dei procedimenti continua a dilatarsi ma attenzione a non illudersi che sia per dare più chance alla mediazione.
Sarà capitato anche a voi di subire rinvii su rinvii solo perché l’impegno assunto nell’ultimo incontro di fornire all’altra parte dei dati o di scambiarsi delle valutazioni sulla scorta di informazioni ricevute, non è stato rispettato e viene chiesto altro tempo. O di sentirsi dire dall’amministratore del condominio chiamato in mediazione che sottoporrà l’adesione ai condòmini nella prima assemblea utile, magari dopo tre mesi, perché “sa, non è che posso convocare un’assemblea apposta e far spendere qualche centinaio di euro al condominio in raccomandate…”.
Insomma, un procedimento di mediazione resta in vita per mesi bruciando tempo inutile, disperdendo, a volte, gli sforzi della sessione precedente e rendendo sempre più arduo per il mediatore non smarrire i fili del lavoro fatto; per poi rischiare di chiudersi in un battibaleno perché dopo un paio d’ore dall’inizio dell’incontro gli avvocati hanno un altro appuntamento. E per non dir di frasi come: “Eh, i tempi non sono maturi per trovare un accordo”, “Non ci sono le condizioni per trovare un accordo”, “È lui che non vuole arrivare ad un accordo”.
Buffo che per anni le persone seminino, innaffino e curino la crescita di un conflitto e poi non abbiano la pazienza di dedicare 10, 15 o 20 ore per ridimensionarlo affinché smetta, perlomeno, di essere troppo invasivo nella loro vita. Meglio una gettata di napalm…
E che dire di quando il “signore grigio” è il mediatore stesso?
Impaziente, ansioso, insofferente, vorrebbe che il risultato si raggiungesse in fretta, quasi si dovesse togliere il prima possibile da un impiccio. Non dovrebbe succedere, ma a volte capita anche questo.
Così ritorno a Momo, una mediatrice che può essere d’ispirazione a tutti noi. In lei si trova il rispetto del tempo e la capacità di ascoltare, di empatizzare, di rispecchiare; in lei è viva anche la creatività di Gigi, la preveggenza di Cassiopea e la saggezza di Beppo, che vi riporto qui sotto, perché il suo motto “un passo, un respiro, un colpo di scopa” possa accompagnare anche voi, come accompagna me da oltre trent’anni.
“Il vecchio si chiamava Beppo Spazzino. Aveva di sicuro un altro cognome ma, dato che di mestiere era spazzino e che tutto lo chiamavano così, anche lui aveva deciso che quel cognome gli stava bene. E faceva il suo dovere volentieri e a fondo. Sapeva che era un lavoro assai necessario. Quando spazzava le strade andava piano ma con ritmo costante: ad ogni passo un respiro e ad ogni respiro un colpo di scopa. Passo-respiro-colpo di scopa. Passo-respiro-colpo di scopa. Di tanto in tanto si fermava e un momento e guardava, pensieroso davanti a sé. E poi riprendeva. Passo-respiro-colpo di scopa. Dopo il lavoro, quando sedeva vicino a Momo, le spiegava i suoi grandi pensieri. E poiché lei ascoltava in quel suo modo speciale, gli si scioglieva la lingua e trovava le parole adatte. «Vedi, Momo, è così: certe volte si ha davanti una strada lunghissima. Si crede che è troppo lunga, che mai si potrà finire, uno pensa. E allora si comincia a fare in fretta. E ogni volta che alzi gli occhi vedi che la strada non è diventata di meno. E ti sforzi ancora di più e ti viene la paura e alla fine resti senza fiato… e non ce la fai più… e la strada sta sempre là davanti. Non è così che si deve fare. Non si può mai pensare alla strada tutta in una volta, tutta intera capisci? Si deve soltanto pensare al prossimo passo, al prossimo respiro, al prossimo colpo di scopa. Sempre soltanto al gesto che viene dopo. Allora c’è soddisfazione; questo è importante perché allora si fa bene il lavoro. Così deve essere. E di colpo uno si accorge che, passo dopo passo, ha fatto tutta la strada. Non si sa come… e non si è senza respiro. Questo è importante»”.