Lo stagno e la mediazione

2604
Photo by Joanna Kosinska on Unsplash

Obbligata dalle circostanze, lo scorso fine settimana mi sono rimboccata le maniche e, con il Ventolin a portata di mano per combattere gli acari, mi sono tuffata nei fascicoli delle mediazioni post D.Lgs. 28 di cui mi sono occupata e che, al grido “non si sa mai”, ho conservato sfidando incurante la capienza e la resistenza del mobile in cui erano riposti. È successo così che, per far posto al presente e al futuro prossimo, sono passati davanti ai miei occhi anni e anni di conflitti gestiti e spesso risolti.
Sono due le cose che mi hanno colpita mentre accatastavo carta e cartelline da smaltire e la mia anima green sanguinava: la prima è che gli scanner nel 2011 e 2012 (mica i fax su carta chimica degli anni ’80!) erano piuttosto patetici.
La seconda, molto più seria e che mi ha investito con una certa violenza, è la sensazione di semi immobilità in cui mi sembra che la mediazione stia stagnando; e il pensiero che sia in pericolo non mi abbandona.
Lo so, è un’affermazione forte che merita di essere spiegata. Se avete un po’ di pazienza, ci provo.
C’era una volta un dibattito che non c’è più. Vedeva sostenitori di diversi modelli confrontarsi e portare avanti modalità di intervento a volte strutturalmente differenti. Qualche scuola di pensiero era più rigida, qualche altra più aperta alla contaminazione. Gli utenti, che a quei tempi erano davvero pochini, potevano scegliere ciò che faceva al caso loro.
Poi è arrivato il decreto legislativo 28 e il dibattito si è spostato sull’ingerenza del diritto in un territorio che il diritto l’aveva sempre scansato. Così si sono creati due fronti: chi questa ingerenza la voleva arginare per conservare l’impianto scientifico della mediazione e chi salutava con favore il vento nuovo che aveva iniziato a soffiare.
Ora che la mediazione è a regime, i due fronti si sono sfaldati e la contrapposizione che è rimasta è tra chi offre all’utenza una buona mediazione e chi offre un servizio scadente. I gruppi tematici sui social languiscono e ripropongono argomenti triti e ritriti. Di stimoli, all’orizzonte, nemmeno l’ombra.

Photo by Clem Onojeghuo on Unsplash

C’era una volta anche la giurisprudenza, il prodotto di pochissimi magistrati molto attenti, appassionati e in prima linea che, con le loro ordinanze e le loro sentenze, hanno tracciato solchi importanti per la mediazione. A distanza di pochi anni, quel fervore, che ben pochi giudici ha contagiato, è andato scemando nella ripetitività e nella ricerca di interpretazioni spesso ardite e discutibili.
C’era una volta la politica, gli interessi di categoria e le battaglie lobbystiche. Erano i tempi in cui i mediatori avvertivano, a intervalli regolari, il pericolo che franasse tutto sotto i loro piedi senza nemmeno il preavviso. Anche questa paura si è assottigliata e regala brividi di incertezza solo di tanto in tanto. Capita che qualche proclama agiti temporaneamente la superficie immobile di un lago stagnante, privo di ricambio idrico e senza più fonti. Un moto di indignazione che fa capolino e poi tutto torna in uno statico silenzio.
In sostanza, c’era una volta il mondo della mediazione, più povero e meno popolato di ora ma più appassionato, che ha tenuto in vita una creatura impedendo che il suo cuore smettesse di battere e che i suoi muscoli si atrofizzassero. Certo il cuore batte ancora ma la vitalità dov’è finita? Che cosa l’ha ridotta in questo stato?
Ci ho ragionato un po’ e sono arrivata a pensare che, secondo me, i responsabili di questo stallo non sono la giurisprudenza che langue, gli avvocati che troppo lentamente riducono le distanze, le diffidenze e i pregiudizi, la politica con i suoi annunci spesso dettati da ignoranza e inconsapevolezza: non penso che il vero pericolo per la mediazione si annidi lì.
Credo, invece, che ciò che si è verificato e che ora dobbiamo temere siano l’assenza di un reale sviluppo scientifico della mediazione, il prevalere della pigrizia di orde di professionisti prestati alla mediazione che pensano che tutto sia già stato detto e scritto, l’inesistenza di laboratori in cui sperimentare e approfondire, in cui fare ricerca.
I moti vitali della mediazione a cui assistiamo in questo periodo sono di natura “orizzontale”, cioè la ricerca di nuove aree di applicazione di questa ADR, come lo sono l’ambiente e l’arte ad esempio, mentre ciò che io non vedo (vi prego, dimostratemi che ho torto!) è uno sviluppo “verticale” della materia, l’approfondimento e il germogliare di sfide di natura scientifica che riaprano il dibattito e, perché no, anche il confronto acceso tra scuole di pensiero.
Ecco, questa è l’immobilità che percepisco: sento la mancanza di qualcosa di nuovo da dire, di una proposta evoluta. Ve lo ricordate quando la mediazione trasformativa e quella negoziale problem solving si contrapponevano? Cos’è rimasto di quella discussione, dov’è finita la voglia di studiare e far evolvere i differenti approcci?
Oggi siamo il Paese più interessante per quanto riguarda la mediazione civile, siamo il laboratorio potenzialmente più ricco. Se non lo sfrutteremo, cosa ne sarà della mediazione tra 10 anni?
Bene, ora che ho esercitato per una decina di minuti il mio “diritto di mugugno”, provo a proporre qualche spunto che spero possa accendere un dibattito tra gli appassionati di mediazione.
Il tema è: come uscire da questa stagnazione?
Innanzi tutto, penso che non si debba aspettare che qualcosa arrivi dall’estero per farlo nostro.
Credo anche fermamente che la sopravvivenza della mediazione non possa essere demandata alla politica e alle iniziative lobbystiche, ma, come ho già sottolineato, che dipenda dalla linfa che solo la dimensione scientifica può generare.
A questo proposito, lancio due sollecitazioni:
– Ricerca e sviluppo di modelli di matrice culturale
– Ricerca e sviluppo di modelli sistemici calibrati sui diversi approcci del mediatore.
Provo ad argomentare.
Il primo ha a che fare con l’aspetto culturale che emerge in mediazione e che viene “curato” principalmente laddove una o più parti sono di nazionalità non italiana o di diversa fede religiosa. Penso che questo campo possa essere ampliato e approfondito anche in una dimensione più domestica. Un paio di anni fa, scrissi un caso per un’edizione della CIM organizzata da Geo-CAM; si trattava di una controversia condominiale che vedeva al tavolo di mediazione l’amministratore di condominio e un anziano condomino un po’ ficcanaso che non pagava le spese condominiali da qualche mese. Le squadre, formate dalle sezioni Geo-CAM sparse per tutta Italia, si sfidarono costruendo i personaggi (soprattutto il condomino anziano) secondo la propria cultura. Emerse agli occhi di un’acuta osservatrice che cercò di seguire più simulazioni contemporaneamente, quanto diverse e caratteristiche fossero le storie alla luce dell’interpretazione “regionale” data da ciascuna squadra. Lo stesso conflitto, declinato secondo l’identità territoriale, mostrò dimensioni e problematiche peculiari che necessitavano di interventi diversi.
Sempre rimanendo in questo ambito, anche le diversità di “genere” (delle parti, degli avvocati, dei mediatori) producono alchimie che potrebbero rivelarsi interessanti in una ricerca.
Quanto al secondo punto, l’argomento che si affaccia a intervalli regolari nei miei pensieri è piuttosto complesso e trova la sua ispirazione in ciò che ho letto a proposito di modelli di terapia sistemica della famiglia e, in particolare della scuola del “Milan approach” di Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin. Ho intenzione di parlarne in maniera più circostanziata in un prossimo contributo ad hoc; tuttavia, proprio per lasciare degli spunti che aprano il dibattito, anticipo che mi immagino un modello di mediazione che metta in discussione la “neutralità” del mediatore e accetti che egli diventi un elemento più attivo del “sistema” formato dalle parti, accompagnatori e avvocati.
Nemmeno con un mediatore poco interventista si può parlare di perfetta neutralità della sua figura, poiché introduce nella chimica della comunicazione un elemento esterno che rimescola almeno in parte le carte. Quindi perché non sperimentare qualcosa di più invasivo (che non significa “valutativo”) che scavalchi il recinto della mera comunicazione e si avventuri in quello dell’organizzazione?
Riconosco che si tratta di una sintesi estrema e ingenerosa (mi dilungherò in altra sede) e che farà sobbalzare qualcuno. D’altra parte, sono convinta che non si debba avere paura ogni tanto di uscire dalla comfort zone e osare, soprattutto se ciò può tradursi in una salutare iniezione di adrenalina per una compagna di viaggio importante come lo è la mediazione per tanti di noi.
Come dicevo, si tratta solo di un paio di spunti in un oceano di possibili esplorazioni e sperimentazioni. Un oceano che mi sembra sempre più ignorato perché ci stiamo accontentando ricavare acqua da una fontanella vicino a casa che potrebbe asciugarsi da un momento all’altro.
La buona notizia è che tra meno un paio di settimane inizierà la settima edizione della CIM: studenti provenienti da tutta Italia che si confronteranno in simulazioni intriganti e ventuno università. Quale punto di partenza migliore?