L’iceberg

2294

Durante le mie scorribande estive in giro per il mondo ho fatto incontri interessanti, spesso curiosi, a volte inquietanti, altre illuminanti. Nell’estate islandese più fredda degli ultimi 100 anni almeno, mentre in Italia ci si cuoceva al vapore per le temperature prossime ai 40 gradi, subito dopo l’esplorazione dei fiordi orientali mi sono diretta alla volta del Parco Nazionale di Vatnajokull. No, non si tratta di uno yogurt che aiuta a riequilibrare la flora batterica intestinale, ma è un sito della regione sud-orientale del Paese che racchiude ghiacciai, boschi, cascate e – se avete bevuto il loro brennivin, un distillato di patate che gli islandesi chiamano anche svarti daudi, cioè “morte nera” – anche troll e elfi. Uno dei ghiacciai si chiama Breidamerkurjokull (lo giuro!!) e da esso, nel periodo estivo, si staccano pesanti massi di ghiaccio che scivolano nella laguna di Jokulsarlòn per dirigersi verso l’oceano Atlantico.
Provate ad immaginare una specie di lago di 25 kmq che lambisce da una parte il ghiacciaio che lo nutre e dall’altra una landa priva di vegetazione, che si riversa nel mare attraverso un canale lungo circa 500 metri. E, in mezzo a questo lago, iceberg a volontà, di ogni forma e grandezza.
E ora provate a visualizzare la sottoscritta nella sua veste di mediatrice che davanti a sé vede tutto questo bendidio…
Sì perché se a guardare un tale sorprendente panorama è una persona normale, ciò che coglie è l’imponenza, la maestosità della natura. Eventualmente, se molto romantica, vede Rose su un pezzo di legno e Jack semi-assiderato.
Ma se l’osservatore è un mediatore – sulla cui normalità c’è ancora molto da indagare – beh, allora davanti a sé si apre una perfetta e complessa metafora delle dinamiche psico-sociali relazionali.
Vi confesso che per un attimo ho provato l’insano desiderio di immergermi per vedere la parte nascosta dell’iceberg, cosa a cui anche voi, cari lettori, state pensando da almeno 1 minuto e mezzo. Non negate!
Tuttavia, poiché a mollo tra i ghiacci c’era solo qualche foca e un tizio più disturbato di un mediatore (a cui credo si siano staccate le orecchie quando è emerso dal tuffo), ho ben presto cambiato idea e mi sono affidata a quello che si potrebbe definire “il mediatore” della laguna di Jokulsarlòn: il mezzo anfibio, che rotola lungo la costa come un autobus prima di scivolare in acqua e navigare con una certa disinvoltura tra gli iceberg. Ora, la domanda nasce spontanea: come si naviga disinvolti tra gli iceberg dopo quello che è successo al Titanic? Cioè, come ci si muove in mezzo al conflitto sapendo che quanto non emerge è verosimilmente molto più grande di ciò che è visibile?
Ovviamente col sonar, un apparecchio utilizzato dai sottomarini per rilevare la presenza di corpi sommersi. Guardavo incuriosita i numeri e i segnali che apparivano sul display dell’anfibio: semplificando in modo inqualificabile, il sonar emette un segnale sott’acqua ad alta energia acustica, gli oggetti nell’area riflettono il suono e l’eco viene raccolta dai sensori dell’emittente. Il tempo trascorso tra il momento dell’emissione del segnale acustico e quello di arrivo dell’eco, definisce la distanza a cui si trova il corpo sommerso. Questo ci ha permesso, per tutta l’escursione, di avvicinarci in sicurezza a giganti di ghiaccio senza rimanere incagliati. Per fortuna, aggiungerei, perché di Di Caprio manco l’ombra…
E la metafora? Dai, l’avrete capita. I segnali emessi dal sonar del mediatore sono, naturalmente, le domande, gli echi che ci consentono di perimetrare il conflitto sono le risposte; non solo il “cosa” ma anche il “come” e il “quando”.
Il sonar deve essere sempre in funzione perché, se così non fosse, si rimarrebbe incantati dal colore azzurro del ghiaccio di superficie generato dall’assenza di ossigeno, che anche un fioco raggio di sole è in grado di rendere ammaliante e irresistibile quanto il canto di una sirena, e si finirebbe con l’avvicinarsi troppo rischiando di danneggiare il motore che può portarci a riva.
Navigando con questa cautela, di tanto in tanto arrivava un forte rumore dall’acqua, un tonfo che faceva scappare via tutti gli uccelli: un iceberg si era capovolto. Questi episodi, mi spiegavano, si verificano con una certa frequenza quando varia il rapporto tra la massa di ghiaccio sott’acqua e quella emersa. È come se ciò che prima rimaneva nascosto, sepolto, ad un certo punto si ritrova sufficientemente ridimensionato da non avere più la forza (o la motivazione) di restare dov’è; così si manifesta in superficie, dove tutti possono vederlo. Non male, eh?
C’è un’ultima cosa che mi ha colpita della vita di questi giganti luminosi galleggianti: possono impiegare anche cinque anni per percorrere i 500 metri che separano la laguna dal mare, per prendere il largo e scomparire dalla vista oppure per sciogliersi a riva. Nel frattempo, vagano a vuoto sciogliendosi e ricongelandosi, in un moto che pare perpetuo.