La giustizia riparativa e la mediazione penale; alcuni spunti per riflettere

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Giustizia Riparativadi Carlo Riccardi

Gran parte dei concetti e delle espressioni utilizzate in questo scritto derivano dalla riflessione e dalla pratica del Prof. Adolfo Ceretti e, in linea più generale, dal gruppo di lavoro da lui coordinato e del quale faccio parte. Le citazioni tra virgolette sono riprese da scritti del Prof. Ceretti pubblicati su varie riviste e monografie. Per questioni editoriali non vengono inserite le note ma i riferimenti bibliografici sono disponibili scrivendo direttamente al sottoscritto (carlo.riccardi@mi.camcom.it).

Il mio interesse per la mediazione penale (mediazione reo-vittima, sarebbe l’espressione più adatta) risale ai primi anni ’90, quando entrai in contatto con il Prof. Adolfo Ceretti colui che, per primo, ha sviluppato questa tematica in Italia. Dopo molti anni, sono coinvolto in vari progetti e svolgo regolarmente mediazioni in questo ambito, sia con minori, sia con adulti; queste parole originano quindi da un osservatorio privilegiato che coniuga la riflessione teorica con la pratica.
Da quegli anni pioneristici ci sono stati molti sviluppi; il paradigma della giustizia riparativa, entro il quale la mediazione si colloca, ha acquisito una dignità scientifica e culturale importante e, variamente collocati nel tempo e nello spazio, sono nati progetti per l’implementazione della mediazione come strumento per la gestione dei “conflitti penali”. Anche le norme nazionali e internazionali hanno riconosciuto i programmi di restorative justice e la mediazione come strumenti capaci di intervenire in modo efficace nella vicenda penale. In ultima analisi, intorno a queste pratiche si è sviluppato un dibattito socio-politico che, anche se con estrema fatica, ha contribuito all’affermazione dell’idea che la risposta al reato possa (e debba) essere maggiormente articolata rispetto allo schema classico della punizione del reo.
Tanti i passi avanti si diceva, ma c’è una domanda che, ancora oggi, molti mi fanno e dalla quale può essere importante partire: “Cosa c’è da mediare quando un reato viene commesso?”. Domanda legittima che segna la strada per approfondire alcune questioni decisive. La prima, centrale, parte da un’ulteriore questione che dobbiamo porci: “Che cosa accade quando un reato viene commesso?”. C’è una risposta, immediata, corretta ma superficiale, per la quale quando un reato viene commesso, viene violata una norma che impediva un determinato comportamento. Perché questa è una risposta superficiale? Perché considera il reato da un punto di vista “oggettivo” – considera l’agito delittuoso – senza però tenere conto dei protagonisti che intervengono nella vicenda: il reo e la vittima. Questa visione minimalista del comportamento delittuoso è alla base della risposta sanzionatoria che, per attivarsi, ha bisogno che qualcuno, con un proprio comportamento illegittimo, abbia colpito, violandolo, il bene giuridico protetto dalla norma sia esso – per esempio – il corpo di una persona, il suo patrimonio o la sua onorabilità, e così via. Quando ciò accade, lo Stato, attraverso il meccanismo processuale, reagisce e applica una sanzione la quale, come previsto dalla nostra Costituzione, deve tendere alla rieducazione di colui che la subisce. Seppur rapidamente e con una certa approssimazione, è importante ricordare, per tracciare i confini di questo discorso, che la pena assolve (si legga, dovrebbe assolvere) a tre funzioni principali: retributiva, risocializzativa e special/general preventiva. Telegraficamente; la prima funzione – atavica e principale – si basa sul principio di restituire un male a chi lo ha commesso. La seconda, attraverso vari programmi, dovrebbe aiutare il reo a comprendere il disvalore del proprio atto e, conseguentemente, a rientrare nella società in modo diverso. L’ultima si fonda sull’assunto che minacciare genericamente una sanzione, dovrebbe consentire a tutti di astenersi dal compiere atti delittuosi, così come la sanzione che segue alla condanna dovrebbe distogliere il soggetto specifico dalla commissione di ulteriori reati. Senza approfondire, diciamo che tutte queste funzioni sono in profonda crisi.
Intorno agli anni ’70 del secolo scorso, la giustizia penale ha visto nascere, accanto ai paradigmi classici, la c.d. giustizia riparativa. A differenza degli altri modelli d’intervento, questa concentra la propria attenzione essenzialmente sulle conseguenze causate dal reato nella vita di chi lo subisce: il concetto chiave su cui focalizzare la propria attenzione, non è la punizione o la rieducazione quanto la riparazione. Riproponiamo la domanda già fatta in precedenza: “Se qualcosa deve essere riparato, cosa si “rompe” quando un reato viene commesso? Qualsiasi reato, dal più lieve al più grave, produce conseguenze nei mondi vitali di chi lo subisce. Le conseguenze di ogni reato presentano, insieme a «terre emerse», zone più nebulose, racchiuse tra gli interstizi del quotidiano: si tratta di quelle ripercussioni opache che, impercettibilmente, penetrano nell’ordinario. Ciò significa che la violazione di una norma produce una vittima con la sua precisa individualità e con tutta la trama delle relazioni famigliari e sociali che ne sono toccate; per comprendere, è quindi necessario scantonare le folle e addentrarsi nei vicoli cercando di comprendere come e perché le vite ordinarie possono non essere più le stesse dopo di allora. Per sviluppare una cultura dell’offesa non claustrofobica, diventa decisivo indagare cosa accade in quel “dopo”. L’argomento è estremamente complesso e qui propongo una semplice, anche se incompleta, riflessione per affrontare questo aspetto così lacerante. L’infrazione della norma penale e la reazione individuale che ne consegue non riescono a contenere l’esperienza di vittimizzazione; altrimenti detto, la violazione della norma origina questa esperienza, ma non è nella trasgressione normativa che si sostanziano gli effetti dell’atto delittuoso. Cosa vuol dire, quindi, subire un reato? Un reato produce conseguenze a livello «pubblico», con ricadute sulla percezione che abbiamo di noi stessi e delle nostre caratteristiche come esseri umani – in una parola, sull’identità –, ma anche a livello più particolare e privato, con trasformazioni del quotidiano causate dall’irruzione del delitto nell’esistenza della persona offesa. Subire un reato vuol dire doversi confrontare con la paura, la vergogna, l’insicurezza e, ancora, con la perdita di fiducia, la rabbia, la depressione, la preoccupazione. Questi sentimenti sono poi mediati nel e attraverso il tempo, ma non evaporano: attivano, piuttosto, dei cambiamenti nei rapporti con famigliari, amici, colleghi di lavoro. Le vittime tendono a modificare la propria condotta e le proprie abitudini per non ritrovarsi nelle medesime condizioni del momento in cui hanno subìto il reato. Le vittime si devono misurare anche con i danni materiali, le perdite, la scelta e le possibilità di denunciare, le difficoltà psicologiche, il bisogno di ascolto e la necessità di reinserirsi nel quotidiano. Subire un reato significa avere a che fare anche con una violazione identitaria. Senza pretesa di completezza, possiamo definire l’identità come il meccanismo che ci consente di comprendere chi siamo attraverso la percezione che abbiamo di noi stessi, delle caratteristiche fondamentali che ci qualificano come esseri umani e del modo in cui, per ciò che siamo, interagiamo con gli altri. L’identità delimita, fissandoli, i nostri confini fondamentali, che ci rendono esseri irripetibili: è con la mia identità che mi riferisco agli altri ed è con il vicendevole riconoscimento delle identità che possono formarsi relazioni virtuose. I continui riconoscimenti e i costanti interrogativi che ciascuno pone su di sé e sui propri comportamenti consentono sinapsi consequenziali tra un prima e un dopo. Essere vittima di un reato vuol dire che l’inviolabilità delle frontiere della nostra identità non è stata sufficiente a distogliere altri dalla possibilità di oltrepassarle. Nell’istante in cui il reato viene commesso, la vittima vive un’esperienza di discontinuità con ciò che era possibile attendersi. Ecco che il prima non trova il proprio dopo: l’evento delittuoso interrompe la linearità di un percorso identitario, creando un solco. Questa spaccatura contiene lesioni della stima di sé, offese, umiliazioni, la sensazione di espulsione repentina dalla propria vita precedente e il senso di stravolgimento per lo smarrimento dei punti cardinali della propria esistenza. La vittima vive un senso d’invisibilità, nella percezione di non essere (stata) vista come essere umano pieno la cui presenza conti qualcosa. È su queste sottrazioni che, a cascata, si sviluppa «quell’emozione che s’impossessa della vita modificando il senso delle relazioni con se stessi e con gli altri, la forma degli affetti, lo scandire delle attività, e che si manifesta sempre laddove si registra una negazione dell’integrità di una persona, laddove si registra una mancanza di riconoscimento». Riconoscimento, appunto: come consentire alla vittima di tornare a percepirsi come essere umano pieno? Il tema centrale diventa quindi la “ricostruzione” di tessuti personali e sociali che il reato ha lacerato. Questo diverso punto di vista sulla dinamica delittuosa, richiede una logica d’intervento differente che coinvolge i protagonisti della vicenda in una visione più ampia del reato. La mediazione reo-vittima fonda la possibilità di questa riparazione nell’incontro tra chi il reato l’ha commesso e chi lo ha subito. Incontro, volontario, riservato, potenzialmente capace di consentire alla vittima di “dare un volto al male” e, così facendo, di “delimitare” la propria esperienza. Incontro nel quale poter porre all’unico soggetto capace di rispondere la domanda principale che le vittime portano con loro: “Perché io?”, “Perché è successo a me?”. I mediatori aiutano i soggetti coinvolti a rileggere la vicenda di reato partendo non solo dall’oggettività dei fatti accaduti ma, soprattutto, dal vissuto emotivo e soggettivo che quell’esperienza ha causato. Lavorare su come il reato ha modificato la vita di chi lo ha subito, significa operare all’interno di quel solco per costruire una possibilità di riparazione. Spesso le vite dopo l’esperienza di vittimizzazione non possono più essere le stesse rispetto a prima ma, l’idea centrale di questo approccio, è di poter riempire quel solco per renderlo meno profondo. L’ipotesi è quindi quella di lavorare per restituire una parte di quel prima, anche sotto forma di riparazione simbolica; in altre parole consentire alla vittima di riprendersi ciò che le è stato sottratto a livello simbolico, emozionale e relazionale. Cosa sia necessario per sentirsi riparati, nessuno può dirlo in anticipo, in quanto dipende solo ed esclusivamente, dalle persone coinvolte e dai vissuti relativi alla vicenda specifica.
Abbiamo incentrato, correttamente, il discorso sulla vittima ma, per non cadere nella logica di esclusione, dobbiamo domandarci che significato possono avere queste pratiche per chi il reato lo ha commesso. La parola chiave per comprenderlo è responsabilità. Il reo, di norma, risponde della propria azione, per qualcosa che ha commesso e ne risponde verso la collettività; residualmente si attiva una responsabilità diretta verso la vittima. La mediazione ribalta completamente il significato di questo termine. L’incontro con la vittima, l’incontro con chi direttamente ha subito l’azione delittuosa, consente di comprendere – al di là della qualificazione giuridica del proprio agito – quali conseguenze siano derivate nelle vite altrui dall’aver agito in un certo modo. L’incontro con la vittima è potenzialmente capace di attivare una responsabilità, non più o non solo per aver commesso qualcosa, ma verso qualcuno. Questa osservazione che può apparire difficile da comprendere, tiene conto del fatto che spesso chi commette un reato, pur sapendo di aver commesso qualcosa di illecito, non riesce a cogliere la reale portata del proprio gesto in quanto considera la propria azione dal proprio punto di vista. Per fare un esempio veloce ma significativo, un rapinatore racconterà che voleva solo prendere i soldi e che sapeva che nulla sarebbe mai successo alle persone presenti; una vittima di rapina, spesso vi racconta di aver provato la paura di morire. Se il reo non “vede” l’altro in questa dimensione soggettiva continuerà a ritenere che la sua azione sia sì illegittima ma, in fondo, non dannosa per alcuno dato che è rivolta verso un sistema (la banca, la posta, un negozio ecc.) ma non verso persone. Nell’incontro di mediazione si lavora per cercare di attivare la capacità di entrambi i protagonisti di “vedere l’altro”; lo scopo, come già detto non è di “risolvere” una controversia o di attivare percorsi di riconciliazione ma, diversamente, di consentire ad entrambi di assumere un punto di vista differente sull’esperienza. Da un lato, consentendo a chi ha commesso il fatto di attivare un meccanismo di auto-riflessività su di sé che parta dal contatto diretto con la vittima del proprio comportamento. Per chi il fatto lo ha subito, dando un’opportunità di “rilettura” dell’esperienza di vittimizzazione capace di riempire, per quanto possibile, quel solco consentendo un ritorno ad una vita accettabile e non più condizionata; una possibilità di riparare quell’interruzione tra i prima e il dopo.
Avviandomi verso la conclusione, spendo qualche parola sui molti progetti di mediazione reo-vittima che ci sono nel nostro paese. Spesso poco conosciuti, questi interventi si fondano sulla vicinanza tra le logiche della giustizia riparativa e la magistratura con la quale tali progetti vengono sviluppati. I programmi di giustizia riparativa e gli interventi di mediazione aiutano sempre più vittime e sempre più rei in vari stadi della vicenda penale a muoversi dall’immobilità in cui il reato li confina. Ciò non è sufficiente in quanto, l’enorme importanza che questi approcci rivestono nella ricostruzione di tessuti sociali lacerati, si scontra con uno scarso investimento delle politiche pubbliche, sempre (più) ancorate a logiche esclusivamente retributive che ormai mostrano la loro vetustà.
La giustizia riparativa e la mediazione penale hanno grandi potenziali di sviluppo negli anni a venire, tenendo anche conto che la risposta sanzionatoria mostra alcuni limiti. Occuparsi di giustizia riparativa e di mediazione non significa percepirsi alternativi alla giustizia penale tradizionale; significa cercare di rispondere in modo diverso alle esigenze che scaturiscono dalla commissione di un reato e significa anche farlo “all’insegna della norma penale”.
Scopo di questo breve scritto non è di essere completo ma di stimolare domande e pensieri, magari difficili ma necessari per rendere attuale la risposta al reato.