Il modello “understanding-based” nella realtà italiana. Incontro con Mario Dotti

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DottiParlare di stili e modelli di mediazione genera qualche volta un po’ di confusione. Per fare un po’ di chiarezza ci siamo rivolti a Mario Dotti, protagonista dell’incontro “Come preparare il cliente alla mediazione”, del  22 novembre, insieme alla collega mediatrice Mariaclaudia Perego.  Dotti è molto vicino al pensiero del formatore americano Gary Friedman (già intervistato da Blogconciliazione qualche anno fa) e può quindi offrirci una visione molto peculiare, soprattutto sul modo di adattare alcune teorie alla pratica della mediazione in Italia.

Nel tuo lavoro di mediatore segui il modello “understanding-based” di Gary Friedman e Jack Himmelstein. In cosa consiste, esattamente, questo modello?

Il modello “understanding based” è un modello di tipo facilitativo che si fonda sulla seguente riflessione: la cosa più efficace che il mediatore può fare per le parti è aiutarle a costruire insieme un dialogo praticabile, attraverso il quale le parti possano lavorare l’una di fronte all’altra, senza intermediari, per comprendere il perché del loro conflitto e decidere insieme come uscire dal loro problema. Porre le parti al centro e farle lavorare insieme è un cardine del modello “understanding based”: il problema è delle parti, le parti sono le “esperte” del loro conflitto, solo loro sanno cosa è davvero importante nelle loro vite. Si lavora quindi tutti nella stessa stanza, dall’inizio alla fine, attraversando insieme ogni fase, da quella della massima discordia a quella in cui si costruisce la soluzione. Un ruolo fondamentale nel modello l’hanno le regole del processo. Regole che, anziché essere dettate in modo direttivo dal mediatore, vengono costruite insieme dall’intero team di lavoro (parti, avvocati e mediatore). Il processo, cioè, appartiene alle parti. Qualsiasi momento del processo, a partire anche dagli snodi più piccoli (ad esempio stabilire chi parla per primo), anziché essere risolto con una indicazione del mediatore, viene gestito cercando un accordo tra le parti: l’idea è che ogni accordo sul “come” fa sentire le parti protagoniste di un processo costruito e voluto da loro, e questo è un importante presupposto verso un accordo sul “cosa”.

Tenere le parti intorno allo stesso tavolo per l’intera durata della mediazione può sembrare molto complesso ai mediatori che, di norma, lavorano molto con i caucus. Non temi che questo approccio possa compromettere la mediazione?

Tenere tutti nella stessa stanza comporta difficoltà che si possono ben immaginare. L’interazione tra le parti è spesso problematica, perché il percorso verso una comprensione profonda del problema richiede di lasciare emergere il conflitto. Occorrono competenze avanzate e molta pazienza da parte del mediatore. Una delle ragioni che mi convincono a tenere le persone insieme è che, se lo scopo della mediazione e aiutare le stesse persone che hanno creato il problema a uscirne trovando insieme le soluzioni, è più probabile che abbiano il potere per farlo se lavorano insieme, se hanno la possibilità di ascoltarsi, di comprendere le rispettive ragioni, piuttosto che essere intermediate da qualcuno che va avanti indietro tra una stanza all’altra, magari tenendosi dei segreti. Molti sostengono che la sessione privata sia utile per raccogliere informazioni. Sicuramente lo è. Ma si porta dietro un problema: mettere il mediatore nella posizione di detenere informazioni confidenziali fa sì che le parti considerino il mediatore come il depositario di elementi cruciali per risolvere la disputa. Ergo, colui dal quale parti e avvocati si aspettano l’input per la soluzione (o la soluzione stessa). La cosa che mi preoccupa di più in questo caso è che, così facendo, il risultato possa essere più opera del mediatore che delle parti, perché le parti non hanno la completezza di informazioni che invece ha il mediatore. E se il risultato, grazie alla asimmetria informativa creata coi caucus, è opera del mediatore, o comunque influenzata dal potere del mediatore, allora credo che si tradisca la missione di fondo della mediazione, che è quella di dare potere alle parti, responsabilizzarle e metterle in condizione di decidere delle proprie vite secondo ciò che esse – non il mediatore – ritengono giusto.

Quindi nel modello “understanding based” il mediatore è un puro osservatore rispetto alla costruzione della soluzione?

Certo che no. Il mediatore può senz’altro contribuire alla fase creativa con suggerimenti, proposte di opzioni, idee ed esperienze. Ma lo fa in un contesto di lavoro di squadra tra pari, dove tutte le idee che circolano sul tavolo, che provengano dalle parti, dagli avvocati o dal mediatore, hanno pari dignità e la loro validità viene valutata indipendentemente dalla fonte. Ben diverso, invece, è il caso di un input dato da un mediatore che le parti sanno essere al corrente di informazioni non emerse in sessione congiunta: le parti possono percepire quell’input come un consiglio da seguire in quanto proveniente dal mediatore. Del resto sono le parti stesse, consegnandogli informazioni confidenziali, a chiedere al mediatore di “gestire” tali informazioni nel modo che egli ritenga più utile al fine di raggiungere l’accordo, riconoscendogli così un qualche potere di influire sull’andamento o sull’esito della mediazione. La conseguenza di questo approccio, però, è che si ricade in una logica “up-down”, analoga a quella del giudizio o dell’arbitrato, nel quale si crea inevitabilmente uno squilibrio di potere, seppur molto sottile tra le parti e colui dal quale ci si attende la soluzione della disputa. Non c’è un giusto e sbagliato, dipende dal senso che ogni mediatore dà alla propria missione: aiutare qualcuno a risolvere da solo il suo problema, oppure risolvergli il problema. Mi viene in mente quel proverbio cinese che dice: “dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno. Insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita”.

I diversi modelli nascono e mutano in base alle circostanze e al contesto in cui si sviluppano. Oggi l’Italia è un terreno molto fertile per la mediazione. In che termini il modello “understanding-based” si può adattare ad una realtà peculiare come quella italiana?

La mediazione, inteso come un modo per risolvere la disputa attraverso un dialogo tra i confliggenti mediato da un terzo, appartiene alla natura dell’uomo fin dagli albori della civiltà. Non c’è conflitto che non si possa tentare di approcciare con il dialogo. Il punto critico che riscontro nella mia esperienza quotidiana è la cultura sociale del conflitto tipicamente italiana, poco avvezza al dialogo e ancora troppo permeata dall’idea che il conflitto debba essere risolto da un giudice (il quale, peraltro, forse pone fine al conflitto ma non necessariamente lo risolve) che decida al posto delle parti. In questo senso nel nostro paese c’è immenso bisogno di empowerment, sia individuale che sociale. Gli individui e le comunità dovrebbero cioè riscoprire il dialogo e il confronto, il rispetto e il riconoscimento, di sé e degli altri. E conseguentemente la propria capacità di autoaffermarsi, di autodeterminarsi e di determinare il corso delle vicende che li riguardano.