Incontriamo Veronica Dini, avvocato milanese, avvocato esperto di diritto ambientale e ideatrice del progetto “Mediazione dei conflitti ambientali”
1) Come nasce l’idea di applicare la mediazione ai conflitti ambientali?
L’idea nasce dall’analisi di un bisogno: è ormai evidente, non solo agli operatori del diritto, che il sistema giudiziario fatica ad affrontare e, soprattutto, a risolvere i conflitti ambientali che approdano ai Tribunali. Le difficoltà sono tecniche, connesse alla lunghezza dei processi, alle sue strettoie e ai costi. Ma sono, a mio parere, prima ancora, ontologiche: i conflitti ambientali sono diventati conflitti sociali, culturali, economici, che non si possono dirimere solo attraverso la lente del diritto. Occorre un confronto reale, concreto, diretto, paritetico, creativo tra le parti in causa, focalizzato sul problema che occorre risolvere. Il sistema giudiziario, per sua natura e per il compito che deve assolvere finisce spesso, suo malgrado, per dividere ulteriormente le comunità e per proporre soluzioni tardive e inefficaci.
2) Nella sua esperienza di avvocato, in quali casi potrebbe essere più utile la mediazione?
Sono convinta che la mediazione possa essere molto utile nella maggior parte dei contenziosi ambientali, anche i più complessi: spesso le parti coinvolte, con l’ausilio di professionisti esperti, sarebbero perfettamente in grado di contribuire a trovare le soluzioni concrete più adeguate ai problemi ambientali ma non hanno la possibilità – giuridica – di esprimersi direttamente e di condividere il proprio pensiero con gli altri protagonisti. La presenza di un terzo imparziale, che non giudica ma facilita il dialogo, può essere di grande aiuto a individuare soluzioni concrete creative e più rispondenti ai reali interessi di tutte le parti.
3) La rigidità di alcune Pubbliche Amministrazioni, la normativa talvolta confusa e dai confini incerti, l’indisponibilità di alcune diritti, soprattutto in materia penale… sembrano esserci molti ostacoli per mediare in ambito ambientale.
Si tratta di difficoltà di natura molto diversa.
Per quanto riguarda le p.a., è vero che spesso manifestano resistenze al cambiamento. E’ una reazione prevedibile, soprattutto di fronte a sfide culturali così profonde, che deve essere compresa e a cui si deve rispondere creando percorsi di accompagnamento e di formazione. Utili, peraltro, a tutti i soggetti coinvolti.
La normativa è senz’altro, a volte, confusa e farraginosa ma i principi fondamentali sono chiari e i fili rossi non mancano.
Anche per quanto attiene la materia penale, sono convinta che le resistenze siano, ad oggi, più che altro dovute alla – altrettanto prevedibile e comprensibile – scarsa conoscenza delle procedure di mediazione penale e giustizia riparativa. Con il tempo e l’approfondimento, sono certa che sarà evidente come sia possibile, oltre che assolutamente indispensabile, attivarsi per ricostruire i rapporti umani e sociali – anche in relazione alle generazioni future – che i fatti di disastro ambientale, ad esempio, determinano con sempre maggiore frequenza. E’ questa, anzi, a mio parere, la sfida culturale più grande che abbiamo la possibilità e il dovere di affrontare.
4) Il 24 novembre ci sarà un convegno a Milano, in cui saranno presentati i primi risultati del progetto. Può darci qualche anticipazione?
Il 24 novembre proveremo a raccontare l’esperienza di questo primo anno di lavoro, intenso, innovativo e molto stimolante.
L’obiettivo, peraltro, è quello di suscitare curiosità e interesse, di raccogliere nuovi stimoli e lanciare nuove sfide.
Perchè siamo solo all’inizio del viaggio.