Il senso del successo della CIM

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di Stefania Lattuille*

Quando, durante il workshop antecedente la proclamazione dei vincitori della IV edizione della Competizione italiana di mediazione (CIM), Luigi Cominelli mi ha chiesto se volevo dire due parole sulla mia esperienza di coach della squadra dell’Università Statale di Milano, ho declinato l’invito essendo certa che avrei detto sciocchezze perché esausta dalle due giornate di gara ed emozionata per l’attesa dell’esito della stessa.
A mente fredda vorrei però condividere in questo spazio una riflessione. Motivi di riservatezza non mi permettono di riportare quanto scrittomi dai ragazzi che, con parole diverse a seconda delle loro personalità, hanno tutti dichiarato essere, quella della CIM, l’esperienza più significativa e arricchente del loro percorso universitario.
Alla base di tale affermazione vi è certamente la novità insita nell’affrontare –finalmente anche nelle nostre università- qualcosa di ‘pratico’ ed il divertimento derivante dalla competizione, ma in realtà anche altro: i ragazzi colgono appieno che, grazie alla CIM, hanno l’opportunità di conoscere, sperimentare e acquisire delle competenze in materia di comunicazione, di negoziazione e di mediazione per loro essenziali come professionisti, oltre che come persone.
Partecipando alla formazione e all’allenamento in preparazione della gara, questi studenti apprendono e sperimentano che nel conflitto è sempre questione di prospettiva, che la gestione delle emozioni come la cura della relazione in questo contesto è fondamentale, che è possibile trasformare l’impulso difensivo/offensivo che scatta verso la controparte in accettazione del diverso punto di vista e in creazione di un contesto di esplorazione dei diversi interessi con l’obiettivo di negoziare collaborativamente e di far emergere soluzioni conciliative.
E non è poco… Quello che è poco, in realtà, è che non lo apprendano tutti gli studenti di Giurisprudenza, i quali dovranno, se avvocati, occuparsi obbligatoriamente di mediazione e di negoziazione assistita (oltre a divenire ‘mediatori di diritto’) e, se giudici, di mediazione demandata.
Senza contare che questo percorso in preparazione della gara mette molto in discussione ‘la persona’(e i ragazzi lo registrano e lo riconoscono) toccando corde anche molto intime -come sempre quando si sta nel conflitto- e facendo emergere i punti deboli di ciascuno, con conseguente acquisizione di una maggiore autoconsapevolezza, anche emozionale, che costituisce un altro esito, direi, stupefacente di questa esperienza, amplificato dalla circostanza che in questa occasione tutto avviene nell’ambito di un lavoro di squadra (a loro detta, mai sperimentato altrimenti in tutto il loro percorso scolastico…).
Ed è evidente la rilevanza di tutto ciò in un percorso universitario che dovrebbe essere anzitutto di formazione della persona, prima che del professionista.
Ma allora, a mio avviso, il dibattito non dovrebbe essere sul mantenere l’insegnamento della mediazione nell’alveo della procedura civile o creare apposite cattedre di ‘mediazione e negoziazione’, ma su come muoversi per far sì che nei programmi di studio universitari, quanto meno di giurisprudenza ed economia, si prevedano corsi –obbligatori- organizzati in modo da far apprendere e sperimentare agli studenti tecniche di negoziazione, di gestione dei conflitti, di comunicazione e, perché no, di public speaking.
Intanto, per fortuna, c’è la CIM che ogni anno sforna un centinaio di giovani donne e uomini che hanno acquisito e interiorizzato queste competenze trasversali, come dimostra anche l’entusiasta partecipazione dei vecchi mooter alle successive edizioni, pronti a diffonderle a loro volta: semi messi a dimora che daranno i loro frutti, ne sono certa.

 

*mediatore; coach della squadra dell’Università Statale di Milano che ha partecipato alla 4CIM