Se i re della negoziazione sono nudi

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sorpresadi Carola Colombo

A tutti piacciono le favole, soprattutto quando c’è il lieto fine e i buoni vincono. Non importa se si è bambini o adulti, maschi o femmine, ricchi o poveri, belli o brutti. La favola è un abbraccio rassicurante che ti dice che andrà tutto bene, che non si deve smettere di sperare perché il bene alla fine trionferà.
Le favole piacciono anche ai mediatori i quali si appassionano pure alle storie vere nelle quali, se non è proprio il “bene” a trionfare, è quantomeno il “meglio”. Non potrebbe essere diverso; essere mediatori comporta una salda convinzione che il pessimismo di chi sta litigando possa essere superato da una terza via a cui il procedimento di mediazione può condurre, e comporta pure una tenace fiducia nelle capacità di autodeterminazione delle persone.
L’indottrinamento durante la formazione non lascia scampo. La prima ad insinuarsi nella mente dell’aspirante mediatore è la storia dell’arancia e del suo potenziale integrativo del 200%, che ne vince immediatamente le difese. Per tutto quello che verrà dopo l’accesso sarà più semplice.
Il modello di negoziazione della scuola di Harvard è stato l’humus che ha fatto crescere le prime generazioni di mediatori in Italia e anche nella formazione odierna riveste una certa importanza pur non essendo più l’unico e incontrastato punto di riferimento.
Prima della nascita del modello di mediazione italiano grazie alle norme in vigore (e relativo disincanto), i conciliatori, come venivano chiamati prima del 2010, “credevano” in un cambiamento possibile perché c’erano fior di esempi che dimostravano quali effetti stupefacenti potesse generare il superamento delle posizioni e l’individuazione degli interessi.
Una decina di anni fa esistevano due capisaldi su cui poggiava la fiducia nella conciliazione da parte dei suoi acerbi adepti: il testo L’arte del negoziato di R. Fisher e W. Ury e il film Hotel Rwanda del 2004 diretto da Terry George. Il libro divulgava, con la semplicità che solo i testi americani sfoggiano, la teoria elaborata dalla scuola di Harvard sulla negoziazione integrativa e cooperativa, fornendo esempi reali, e anche di una certa importanza come i Trattati di Camp David, sull’efficacia di questo modello. Il film rappresentava cinematograficamente il salvataggio di oltre mille persone durante il genocidio in Rwanda del 1994, da parte di Paul Rusesabagina, direttore dell’Hotel delle Mille Colline a Kigali, grazie alle sue conoscenze e capacità negoziali.
Ora che come mediatori siamo diventati grandi, la domanda possiamo farcela: era tutto vero quello che ci hanno raccontato?
La risposta è NO.
Come un bambino che scopre che Babbo Natale non esiste, con una certa delusione proviamo anche noi ad accettare che le storie sono un po’ diverse da come ce le hanno presentate.
Nel 1978, con Jimmy Carter alla presidenza, gli Stati Uniti furono protagonisti dei famosi Trattati di Camp David che hanno condotto alla pace l’anno successivo Egitto e Israele. I trattati erano due: il primo istituente un’autonoma autorità autodisciplinante in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, il secondo riguardante la sovranità sulla penisola del Sinai.
Di questo secondo si parla nel testo L’arte del negoziato, di come l’individuazione dei reali interessi di Israele (smilitarizzazione dell’area da parte dell’Egitto, libertà di passaggio nel Canale di Suez, ecc.) abbia portato Israele stessa a ritirare le sue forze armate dal Sinai e a siglare il trattato di pace con l’Egitto.
Peccato che nel testo di Fisher e Ury non si faccia mai menzione all’impegno che in quella sede gli Stati Uniti presero per diversi miliardi di dollari in sovvenzioni verso i governi dei due Paesi. Wikipedia riporta che dal 1979 al 1997, l’Egitto ha ricevuto 1,3 miliardi di dollari l’anno destinati anche alla modernizzazione dell’esercito egiziano. Israele, invece, ha ricevuto 3 miliardi di dollari l’anno dal 1985 in sovvenzioni e aiuti militari.
Difficile pensare che l’impegno economico degli Stati Uniti nella definizione dei trattati non abbia avuto un’importanza fondamentale. Ed ecco che allora il primo dei nostri due capisaldi vacilla e sotto la barba bianca ci sembra di vedere nostro padre.
Passiamo al film che era la trasposizione dell’autobiografia che Paul Rusesabagina aveva scritto anni dopo i tragici eventi in Rwanda.
Il 23 gennaio di quest’anno doveva tenersi la cerimonia di conferimento della cittadinanza onoraria di Torino a Paul Rusesabagina, cerimonia che viene annullata appena prima da parte dello stesso Comune per “motivi organizzativi”. I motivi sembrano essere altri, tuttavia.
Riprendendo un intervento di Daniele Scaglione , già rappresentante in Italia di Amnesty International nonché giornalista e scrittore che sul genocidio in Rwanda ha scritto libri e testimonianze, proviamo a definire meglio la figura di Rusesabagina.
Rusesabagina ha vissuto personalmente quella tragica pagina di storia africana risalente all’anno 1994 che ha generato il massacro ad opera di estremisti hutu di 800.000 tutsi e hutu che si opponevano o non aderivano alle violenze. L’occidente della vicenda sa poco e male e spesso la conoscenza dell’evento dipende proprio dalla visione del citato film. Film di grande successo con ben tre nomination agli Oscar, che è stato tratto dall’autobiografia di Rusesabagina, il quale pare che abbia raccontato una versione non del tutto vera della storia e rappresentandosi in modo eccessivamente eroico. Da direttore del lussuoso Hotel delle Mille Colline, quando iniziano i massacri dà ospitalità nell’hotel a oltre mille persone che rischiano la vita tenendo a bada i miliziani hutu e l’esercito rwandese responsabili dell’eccidio e collaborando coi caschi blu per salvare più vite umane possibili.
Se non che, più di cento persone tra quelle rifugiate nell’hotel sostengono di essere state ricattate da Rusesabagina: se non gli avesse consegnato tutti i loro averi, li avrebbe consegnati ai miliziani . Inoltre, i caschi blu in Rwanda sostengono che Rusesabagina ha fatto tutto il possibile per mandare via i soldati della missione di pace che era stato distaccato proprio presso l’albergo e che, addirittura, aveva fornito all’esercito rwandese una lista in cui erano riportati i nomi delle persone nascoste nell’albergo e i relativi numeri di camera. Sono stati i militari internazionali ad intervenire e far cambiare stanza alle persone più a rischio .
Resta il fatto oggettivo che le persone nell’hotel si sono salvate ma la circostanza viene attribuita dai ricercatori ed esperti ad una probabile scelta dei miliziani ed estremisti di evitare un massacro in uno dei pochi posti in Rwanda che era sotto gli occhi della comunità internazionale.
Insomma, Babbo Natale proprio non esiste e questo ci rende tristi. Guardiamo i nostri “Re della negoziazione” e li vediamo senza i sontuosi abiti con cui ce li hanno presentati. Sono nudi.
Quindi tutto da buttare?
Non per me. Via questo velo di ipocrisia, teniamo i piedi piantati per terra e spieghiamo nei corsi che non ci sono bacchette magiche nella negoziazione, che ogni buon risultato è dato da un lungo e complesso lavoro che si fa con le parti grazie alla conoscenza di tecniche che, se ben usate, sono efficaci ma mai da sole risolutive. E che l’accordo perfetto, quello del 200% dell’arancia, non esiste ma esistono buoni accordi che si costruiscono con pazienza e disponibilità.
Solo così da mediatori potremo assistere a piccoli miracoli di composizione di liti inferocite che pensiamo possano verificarsi solo nelle favole.