Il punto della situazione: a confronto con Chiara Giovannucci Orlandi

2235

I primi mesi di “nuova mediazione” sono trascorsi e si impone ora una riflessione sullo stato dell’arte delle mediazione. Un interlocutore quasi d’obbligo è Chiara Giovannucci Orlandi, docente dell’Università di Bologna e grande esperta di procedure di ADR.

Dopo la riforma intervenuta grazie al Decreto del Fare, la mediazione conosce ora una nuova fase. Quali sono le sue sensazioni al riguardo?
L’istituto è ora disciplinato in modo da poter essere facilmente utilizzato. La gratuità del primo incontro (con innegabile impegno economico per gli organismi e i mediatori) facilita ampiamente la partecipazione che solo una preconcetta avversità alla mediazione può impedire. Il mediatore deve spiegare non soltanto agli avvocati ma anche e soprattutto alle parti cosa sia la mediazione, per poi valutare insieme la “mediabilità” della specifica controversia sorta tra esse. Quando decidono di proseguire, acquistano una consapevolezza tale da favorire una notevole percentuale di successo, considerando tale non solo il raggiungimento dell’accordo ma anche quella ripresa del dialogo che, in ogni caso, influirà positivamente sul successivo ed eventuale compito del giudice. A questo scopo, ad esempio, vanno salutati con grande favore gli interventi della magistratura tendenti a sottolineare il sostanziale obbligo delle parti di presentarsi personalmente al primo incontro.

L’Europa, da molti anni, preme per un sempre più diffuso utilizzo degli strumenti ADR. Con quali risultati, a suo avviso?
I risultati, purtroppo, sono obiettivamente insufficienti, come confermato da uno studio commissionato dal Parlamento Europeo “Rebooting the Mediation Directive” e di cui si discuterà ad un convegno che si svolgerà il 19 maggio a Bologna. Praticamente l’unica eccezione sembra essere la situazione italiana grazie alle diverse proposte di obbligatorietà della procedura prima, e di obbligatorietà della partecipazione ad un “Primo Incontro” ora. Questo sta , di conseguenza, aprendo un grande fronte di interesse all’utilizzo di strumenti di “forte incentivazione” della mediazione stessa, per non vanificare l’aspettativa europea nei confronti degli effetti della Direttiva. In questo senso, significativa appare la recente introduzione nel Regno Unito, per le controversie in materia di famiglia, del MIAMs (Mediation Information and Assessment Meetings) che, dall’aprile 2014, deve essere svolto davanti al mediatore che solo potrà rilasciare un attestato di partecipazione che consente l’accesso al giudice.

Nonostante il D.LGS.28/2010 attui una direttiva focalizzata principalmente alla mediazione delle dispute transnazionali, ad oggi questo ambito sembra ancora trascurato dai più. Per quali ragioni?
Per il principio di sussidiarietà, la direttiva non poteva che dichiararsi focalizzata alla mediazione delle liti transnazionali, ma, a mio avviso, lo scopo palese ( e sulla cui condivisibilità astratta si potrebbe discutere a lungo) era quello di una riduzione del contenzioso interno con una contemporanea diffusione di una cultura che permetta poi il passaggio all’uso della mediazione per le controversie transnazionali. Penso quindi che si sia ancora troppo focalizzati sull’andamento dell’istituto nell’ambito nazionale. Ad esempio, nessun rilievo viene dato a livello statistico alle pur poche procedure in questo ambito, mentre, da quanto mi è dato sapere si tratta di casi che presentano elementi molto interessanti quanto alla qualità delle parti ed all’entità delle somme in gioco, trattandosi per lo più di rilevanti controversie tra imprese. La svolta numerica potrebbe avvenire, invece, con l’attuazione della Direttiva 2013/11/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 maggio 2013 sulla risoluzione alternativa delle controversie dei consumatori.

Sembra che il futuro della mediazione dipenda da interventi legislativi, italiani ed europei. Quali speranze abbiamo in un cambiamento dal basso, con utenti e avvocati che volontariamente utilizzano la mediazione?
Qualche corretto intervento legislativo potrebbe senza dubbio rilevarsi utile. A mio avviso, però, il cambiamento dal basso può considerarsi già iniziato. Il primo incontro costringe il mediatore ad una immediata verifica delle sue attitudini e capacità, ma è anche di grande stimolo per coloro che si stanno impegnando con grande professionalità. Le parti cominciano ad apprezzare personalmente i risultati delle procedure ed i professionisti più attenti stanno prendendo consapevolezza del fatto che la via migliore non è tentare di superare l’obbligatorietà della legge, non partecipando agli incontri ma, al contrario, personalizzando l’uso dell’istituto con l’inserimento di clausole di mediazione nei contratti dei loro clienti.
Per i più recidivi, infine, l’atteggiamento dei magistrati si sta rivelando un importante deterrente. Gli interventi si susseguono sempre più frequentemente sugli aspetti di maggior rilievo, dalla mancata partecipazione non giustificata fino alla sanzione, con la condanna per lite temeraria, per la mancata disponibilità concreta a valutare la possibilità di cercare una soluzione alternativa alla domanda in giudizio. Da questo spero sia breve il passaggio alla valutazione non solo della mancata partecipazione, ma anche del comportamento tenuto nel corso degli incontri, alla luce dei criteri di correttezza e buona fede.
Spero che la sperimentazione in corso, prevista dalla legge, perché voluta dal Parlamento, possa proseguire senza ulteriori sterili polemiche, per consentire poi un’obbiettiva valutazione dei risultati raggiunti.