Mediazione penale: una scelta di confronto e responsabilità

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di Davide Bux*

La mediazione penale è caratterizzata da un elemento comune ad altre mediazioni, compresa quella civile: la comunicazione quale canale privilegiato per ricomporre i legami interrotti (vedi anche l’articolo di Simona Silvani presente su questo Blog). Secondo il modello umanistico-dialogico, in particolare, un percorso di riconoscimento personale e profondo tra le due parti in conflitto è possibile attraverso la parola e l’ascolto.
La mediazione penale (più correttamente, mediazione reo/vittima), infatti, si occupa, attraverso l’incontro tra vittima e reo, di “riavvicinare” due soggetti che sono stati allontanati dal reato. Quello stesso reato che ha costituito l’elemento fondante che li ha visti coinvolti e che al contempo li mantiene legati l’uno all’altro, ma a distanza e in modo avversariale. Il reo, infatti, avrà ben impresso nella mente il soggetto a cui è stata rivolta l’azione illecita da cui è scaturita la pena che lo affligge e, al contempo, la vittima non potrà scordare l’individuo (da cui però prenderà le distanze) che le ha procurato il male che le impedisce di riprendere le redini della propria vita.
Durante questi incontri, il dialogo e l’ascolto assumono un ruolo di primaria importanza nel “cambio di rotta” che le parti in conflitto attuano dalle loro iniziali posizioni esacerbate dalla realizzazione del reato e connotate da una fissità di ruoli, a qualcosa d’altro che consente alle stesse la creazione di uno spazio per confrontarsi reciprocamente senza la pretesa o il disagio che un giudizio possa intromettersi in tale frangente.
Il reato crea un male che colpisce in primis la vittima, intesa come colei che subisce un danno ingiusto a causa dell’azione illecita di un altro soggetto. Questa di conseguenza innesca, involontariamente tutta una serie di meccanismi che portano il trauma ad operare verso il futuro e a rendere la vittima diffidente verso l’intera collettività. Al danno subito, nell’intimo della vittima, inoltre, sorgono una serie di domande che si possono ricondurre alle fondamentali “Perché io? Perché è successo proprio a me?” E che, col tempo, potrebbero portare la stessa a colpevolizzarsi per quanto le è accaduto.
Parlare della vittima però non vuol dire in qualche modo implicito parlare contro l’artefice del fatto illecito, bensì significa discutere di quell’equilibrio che è venuto meno tra chi ha commesso il reato e chi l’ha subito.
Il perno di questo equilibrio va ricondotto alla domanda: che cosa significa essere responsabili?
Per il diritto, infatti, si è responsabili per aver violato una normativa penale, la quale a sua volta mira a tutelare beni e interessi meritevoli di tutela per l’Ordinamento; per la mediazione penale, invece, partendo dalla realizzazione dell’illecito, essere responsabili vuol dire esserlo nei confronti di qualcuno con il quale si ha un rapporto. Quello stesso rapporto che lega tutti (c.d. patto di cittadinanza), in funzione del quale le nostre identità (intese come la percezione che ognuno ha delle caratteristiche che lo qualificano essere umano e che lo contraddistinguono dagli altri) possono sentirsi sufficientemente sicure da poter coesistere e che è connotato dalla consapevolezza che le nostre relazioni sono fondate sul rispetto dell’altro, il quale, a sua volta, non violerà la nostra identità.
All’interno dell’incontro di mediazione penale, infatti, si crea uno spazio e un tempo in cui è possibile coltivare un confronto tra gli antagonisti che attraverso l’intervento del mediatore o di un gruppo di mediatori acquisisce “un senso” orientato ad un riconoscimento della dignità propria, dell’altro e ad una relazione sociale. Senza scendere nel dettaglio, basti chiarire che il dialogo tra il reo e la vittima conduce entrambi ad uno scambio di sofferenze, di emozioni, di affetti e di sentimenti che possono portare ad un nuovo livello di riconoscimento e di condivisione di sé stessi, dell’altro e della collettività.
Il recupero della relazione sopradetta, inoltre, fa sì che ci si discosti dalla concezione della c.d. monetizzazione dell’offesa, la quale ritiene che il denaro possa costituire un equivalente fungibile al danno subito, e così si rivaluta “il ruolo della vittima nel processo penale, dando maggior risalto alle conseguenze emozionali nonché materiali provocate dal reato”,  si rinsalda “la sicurezza della comunità attraverso la partecipazione attiva dei cittadini” (UMBREIT M.S.)   e l’autore dell’illecito acquisisce consapevolezza del male scaturito dal proprio atto e della sua posizione rispetto all’altro “riconosciuto come suo simile”.

 

* Servizio di conciliazione – Camera di commercio di Monza