Sono rimasto profondamente affascinato nell’apprendere che in molti luoghi, in Africa, le persone coinvolte in un conflitto si ritrovano sotto l’ombra di un vecchio albero per discutere e provare a trovare delle soluzioni. Il setting è dato dalla presenza degli anziani del villaggio. Il mediatore è, di fatto, l’albero. Dove si trovano le radici del mediatore? Il mediatore ha le sue “fondamenta” nelle tecniche, conoscenze ed abilità che ha acquisito? O c’è qualcosa di più profondo? Parlare con Alan Limbury e, soprattutto, vederlo in azione dà una risposta a molte di queste domande. Le competenze acquisite offrono al mediatore molte opportunità se basate sulla consapevolezza che il mediatore che del proprio ruolo, della propria personalità e del proprio stile. Nell’approccio di Alan, le sue radici sono molto visibili.
Alan Limbury è mediatore ed arbitro, con un Master LL.M. dell’Oxford University ed uno in Dispute Resolution dell’University of Technology di Sydney. Ammesso come avvocato in Inghilterra prima di spostarsi in Australia nel 1964, ha svolto l’attività legale presso le maggiori law firm di Sydney prima di divenire, nel 1987, mediatore e, più di recente, arbitro, come Managing Director del suo studio di consulenza, Strategic Resolution (www.strategic-resolution.com). Residente in Australia, è mediatore anche in Europa come Associate Member delle Crown Office Chambers di Londra. Alan pratica la “Negoziazione di principio” e la mediazione basata sugli interessi, con un approccio non giudicante o aggiudicativo, che non limita però il ricorso alle tecniche del test della realtà ed all’accrescimento delle possibili opzioni per un accordo. E’ creativamente facilitativo, ricerca obiettivi non ristretti, è persistente e paziente. Alan ha un approccio calmo, rispettoso, che lo mantiene visibilmente ottimista. Spesso indaga approfonditamente con i legali ed i loro clienti, in sessioni confidenziali, i profili anche legali della controversia, per permettere loro di raggiungere una consapevolezza realistica delle possibilità legate alle azioni giudiziarie in tribunale o in arbitrato. Un mediatore empatico, Alan è capace di aiutare a costruire un procedimento che soddisfi le necessità delle parti, mantenendone salda la gestione seppur senza risultare rigido o legato ad una particolare forma. E’ rigorosamente rispettoso della riservatezza. E’ stato descritto, nell’edizione 1996/97 di Legal Profiles (l’ultima edizione a mantenere una sezione separata per l’ADR) come il “professionista di maggior rilievo” nell’ADR a Sydney e, dal Times di Londra, nel Giugno 2007, come “il più importante mediatore australiano”.
L’inizio di una sessione di mediazione è spesso teso e densamente emotivo. Questo può colpire la comunicazione ed il coinvolgimento stesso delle parti. Il discorso di apertura del mediatore è un modo per trasmettere il senso dell’incontro e descrivere ruoli e modalità di interazione. Normalmente vengono poste delle regole. Talvolta, non efficacemente. Tu, Alan, usi un bastone. Non lo utilizzi contro le parti, chiaramente, ma lo metti sul tavolo. E’ un bastone speciale che crea una delle più particolari atmosfere che io abbia mai visto. Qual è la storia di quel bastone?
Si tratta di una miniatura di un bastone aborigeno della parola, lungo circa 12 pollici, con un’estremità biforcata che forma un anello, un buco, che mia moglie è riuscita ad ottenere per me in una galleria d’arte nel South Eastern Queensland. (Le hanno fatto comperare anche il bastone originale, ma è troppo grande per me da portare in giro. Ci sono voluti diversi giorni per ottenere una miniatura di dimensioni adatte e per permettere all’artista di decorarla e smaltarla, perché non si rovini col tempo). La posiziono sul tavolo quando arrivo, insieme ai documenti, agli occhiali, alle penne, ecc., come se fosse un normale oggetto di cancelleria. Spesso le parti mi chiedono cosa sia, rispondo che lo spiegherò in un secondo momento.
Verso la fine del mio discorso introduttivo, dico qualcosa come: “Vi potreste domandare cosa sia” (alzando il bastone). “E’ una miniatura di un bastone aborigeno della parola. Lo passerò intorno al tavolo affinché possiate ammirarne le belle decorazioni, i serpenti e le formiche disegnate” (e lo passo alle parti). “Quello di dimensioni originali è lungo circa un metro, con un largo buco – come un megafono – ad un’estremità. Quando la comunità aborigena da cui proviene tiene i propri incontri, vige una regola per cui si può parlare solo tenendo in mano il bastone della parola. Come potete immaginare, le dimensioni originali del bastone sono uno strumento molto utile per far rispettare la regola. Mi piacerebbe che ci accordassimo su una regola come questa: non occorre tenere in mano il bastone della parola, per parlare, ma facciamo in modo che sia una sola persona alla volta a farlo. Spesso le persone possono scaldarsi molto in mediazione, e non è di per sé un problema, questo è il posto in cui poterlo fare, a differenza di un Tribunale. Quindi, quando qualcuno dice qualcosa su cui si è in disaccordo, prendete un appunto e io mi impegnerò ad assicurare a tutti la possibilità di dire ciò che vogliono” (riprendendo il bastone, che a questo punto ha fatto il giro del tavolo). “E se qualcuno dovesse parlare sulla voce di un altro, tutto ciò che dovrò fare sarà far ondeggiare il bastone” (e lo dimostro). “A quel punto saprete cosa voglio comunicarvi, per poter essere in grado di ascoltare ciò che viene detto”.
Metto poi il bastone, orizzontalmente, davanti a me, e dico: “Sembra il bastone cerimoniale che usa chi sta parlando in Parlamento (è un cerimoniale in uso nel Parlamento australiano, come in altri parlamenti del mondo anglosassone, v. ), e scommetto che questo lo procede di qualche millennio”.
Il risultato è che le parti e i loro avvocati si trovano a sorridere allo humour che introduce il mediatore, e acconsentono prontamente ad adottare questa “regola”. Più tardi, quando chi parla è interrotto, spesso indica il bastone e dice “Hey, è il mio turno”. A volte, quando lascio la stanza per una sessione privata con l’altra parte, le persone che restano nella stanza mi dicono “Non dimenticare di prendere il bastone”. In conclusione, è un modo per rompere il ghiaccio, introdurre questa regola, normalizzare i comportamenti emotivamente “caldi” e stabilire un grado di controllo sul processo. In ogni caso, per me funziona.
…e sono certo che abbia un’efficace incidenza generale nello stabilire una connessione di lavoro positiva con le persone al tavolo. Qual è il tuo stile nel creare un rapporto con le parti?
Le parti mi dicono che sono calmo, e infatti cerco di mantenere un’apparenza di calma, per incoraggiarle a sentirsi confortevoli. Dico espressamente che a loro spettano le decisioni, e che sono loro le persone più importanti al tavolo. Chiedo loro se si possa usare il nome di battesimo. Cerco di dimostrare il mio ascolto e la mia comprensione per come loro vedano la situazione. Molti sono i fattori coinvolti: contatto visivo, empatia, sintesi, richiesta di domande rilevanti, attenzione a che tutti possano dire ciò che vogliono dire. La formazione aiuta, ma alla fine si tratta di intuito. Spesso ricordo alle parti ciò che soleva dire Malcolm Muggeridge: “Nessuna controversia si riferisce mai a ciò a cui si riferisce”, e trovo che esse rispondano spesso con entusiasmo all’idea di potersi indirizzare alle loro reali preoccupazioni, sottostanti alle problematiche apparenti della disputa.
Alan, quali sono le situazioni più impegnative e difficili in cui ti sei trovato impegnato come mediatore? Come ti sei sentito e come le hai gestite?
La seconda, peggiore situazione fu quando una convocata ad un procedimento di mediazione, non assistita, mi accusò (non fondatamente, mi affretto a dire) di aver violato la riservatezza sulle informazioni che mi aveva confidato, perché la somma che mi aveva detto di essere pronta a pagare corrispondeva esattamente a quanto poi il richiedente le disse che avrebbe accettato. (Il motivo fu che il richiedente aveva ottenuto una sentenza per quello stesso importo e insisteva per non essere pagato un centesimo di meno di quanto la corte aveva stabilito). Non avevo modo di difendermi, perché avrei dovuto riportarle quanto il richiedente mi aveva confidato riservatamente. L’accusa giunse quando la convocata, a cui era stato richiesto di acconsentire a che suo marito garantisse il pagamento, declinò il mio invito a chiamare il marito prima di prendere una decisione. Quando lei lo chiamò, dopo aver sottoscritto l’accordo definitivo, lui si infuriò e, quindi, lei mi accusò. Mi sentii tanto furibondo quanto indifeso. Fortunatamente, a ciò non seguì nulla.
La peggior situazione fu quando il convocato n. 6, che asseriva di non dover pagare nulla al richiedente poiché la responsabilità cadeva in capo al convocato n. 1, lasciò la stanza dicendo di voler spiegare privatamente al richiedente che non avrebbe potuto pagare più di quanto aveva acconsentito a fare come contributo al pagamento dell’intera somma offerta dal gruppo dei convocati (un’offerta che avevo riportato precedentemente al richiedente, che l’aveva però rifiutata in quanto insufficiente). Successivamente, questo convocato ritornò nella stanza in cui mi trovavo con gli altri convocati, e quindi mi spostai nella stanza del richiedente. Trovai sul tavolo un foglietto con alcune cifre scritte sopra, che realizzai essere il doppio di quanto ogni convocato aveva precedentemente detto di poter offrire come contributo alla somma globale, con la somma relativa al doppio del contributo del convocato n. 6 barrata da una croce. Chiesi: “Di cosa si tratta?”, e il richiedente rispose: “Abbiamo appena concordato che lui non pagherà niente”.
A quel punto, tutto ciò che sapevo era che dovevo uscire da quella situazione. La parola “frode” non mi venne in mente fino a più tardi, quando compresi pienamente che il convocato n. 6 stava cospirando con il richiedente per indurre gli altri convocati a raddoppiare i loro contributi acconsentendo a raddoppiare anche il proprio e a dare esecuzione ad un accordo secondo tali parametri, sapendo però che il richiedente non avrebbe mai richiesto il pagamento da parte sua, bensì da parte del convocato n. 1.
Dissi a tutte le parti che avrei posto termine alla mediazione. Fortunatamente, stavamo per essere allontanati comunque dalle stanze per l’esaurita disponibilità di tempo, quindi dissi che era chiaro, per me, che l’accordo di mediazione non poteva essere raggiunto. Quando le parti innocenti obiettarono, dissi che avrebbero in ogni momento potuto riassumere la mediazione volontariamente (pensando che io non l’avrei mai fatto).
Il giorno dopo mi chiesero di fornire una spiegazione più approfondita e dissi di aver saputo qualcosa in via riservata che mi aveva reso impossibile continuare come mediatore. La controversia era incardinata in una corte dove i costi della mediazione potevano essere suddivisi tra le parti secondo una valutazione del giudice, che poteva ascoltare il mediatore prima di prendere una decisione a riguardo. Sfortunatamente, non mi è mai stata richiesta una memoria esplicativa su ciò che era successo.
E’ interessante notare come proprio le due situazioni più dure in cui ti sei trovato siano connesse all’incontrare le parti separatamente. Qual è il tuo approccio alle sessioni private rispetto alle sessioni congiunte?
La sessione private è dove accade la magia. E’ dove il mediatore scopre quali siano i reali interessi delle parti, che potrebbero non voler condividere tra loro, e dove il mediatore potrebbe individuare uno spazio di manovra laddove tutti gli altri sono bloccati. Non uso i caucus al posto delle sessioni congiunte. Gli utilizzo affianco ad esse. Le sessioni congiunte rendono possibile a chi deve prendere le decisioni – le parti – di comunicare direttamente, e consentono agli avvocati di fare altrettanto. Cerco di non cadere nella situazione in cui mi trovo ad essere un mero messaggero tra le stanze in cui si trovano le parti. Quando sono separate, possono facilmente cadere nel reciproco sospetto, e quindi le offerte con un certo grado di complessità potrebbero non essere considerate relativamente al loro merito, ma come un tranello teso dall’altra parte. Quindi, dopo aver lavorato con una parte in una sessione privata per aiutarla a formulare un’offerta, in termini che spero possano risuonare con l’altra parte, riunisco solitamente tutti i partecipanti in una sessione congiunta, per far sì che l’offerta sia presentata. Un vantaggio immediato di questa tecnica consiste nel fatto che se ci fosse qualche domanda, potrebbe essere presentata ed ottenere una risposta immediatamente, mentre se portassi io l’offerta attraverso sessioni private dovrei tornare dall’offerente per avere la risposta, permettendo al sospetto di iniziare a radicarsi nella convinzione di chi quell’offerta l’ha ricevuta. Se non ci fossero domande, dopo la presentazione in congiunta dell’offerta l’offerente potrebbe lasciare la stanza, permettendomi di restare solo con chi l’ha ricevuta per comprendere come la considera, ed eventualmente aiutarlo a formulare una contro-offerta, in termini (spero) che possano essere accettabili per l’offerente iniziale. Solo quando c’è accordo su tutto e rimane un punto semplice della trattativa (come l’ammontare di una somma), allora mi sposto da una stanza all’altra per condurre una negoziazione tra le parti separatamente, sulla base delle informazioni che mi autorizzano a trasmettersi, per una questione di efficienza. A questo punto, spero, la fiducia si è stabilita e tutti possono rendersi conto che l’accordo è vicino.
Da dove, e quando, hai approcciato la mediazione? Come ciò ha influenzato (ed influenza) il tuo stile?
Sono un avvocato dal 1964, specializzato in competition law e Proprietà Intellettuale, e sono arrivato alla mediazione per caso. Nel 1986 ho voluto partecipare alla sessione della Summer School di Harvard in materia di antitrust condotta dal professor Phillip Areeda, il guru dell’antitrust. Quando mi arrivò la brochure, mi dispiacqui nel vedere che questa sessione sarebbe durata per due settimane, potendo invece io partecipare solo ad una. Mentre la stavo per gettare nel cestino, vidi sul retro il riferimento ad un workshop sulla negoziazione condotto dal professor Roger Fisher (co-autore di “Getting to Yes: Negotiating agreement without giving in”), della durata di una settimana. Non avevo mai pensato che la negoziazione fosse qualcosa che potesse essere insegnata e me ne interessai. Così mi iscrissi e partecipai a quel corso. [Accadde poi che un amico, Stephen Breyer, ora nella Corte Suprema degli Stati Uniti, mi invitò a cena. Il suo altro ospite era Phillip Areeda, così ottenni il massimo da entrambi i mondi].
Il corso di Fisher cambiò la mia vita. Ritornai l’anno successivo e partecipai al workshop del professor Frank EA Sander sulla mediazione mentre mia moglie, Rosemary Howell, che successivamente scrisse la tesi di dottorato su “Come gli avvocati negoziano”, partecipò al corso di Fisher. Rimasi agganciato. Feci in modo che tanto Roger quanto Frank potessero tenere dei corsi in Australia nei due anni successivi e fui invitato poi ad Harvard, nel 1991, come loro assistente. Nel frattempo, molti organismi di ADR venivano aperti in Australia e tanto la NSW Law Society, quanto il Law Council australiano attivarono dei comitati ADR. Fui coinvolto in entrambi, al punto che – un tempo etichettato come uno scettico professionista legale – venni considerato “un messianico propagandista delle ADR”.
Ho iniziato a fare mediazione nel 1987, cercando di inserirla nella mia pratica legale abituale. Con il 1996, ero già più interessato a divenire un mediatore a tempo pieno che a restare un avvocato, così lasciai la mia law firm, Minter Ellison (la prima in Australia a creare un gruppo di pratica ADR, nel 1987) e intrapresi la mia attività in proprio, Strategic Resolution. Mi sentii come se stessi per saltare giù da una metaforica scogliera finanziaria. In ogni caso, questa scogliera finanziaria si è rivelata profonda un solo dito!
Il mio trascorso forense mi permette di fare opportunamente il reality testing durante le sessioni private con le parti, che devono prendere le decisioni nella consapevolezza, ed i loro avvocati, non asserendo, bensì domandando. Non ho paura di domandare ad un avvocato di indicare una possibile percentuale di successo giudiziario sulla prospettiva del cliente e di persistere di fronte alla classica risposta “ottime prospettive”, ecc. Valutare le prospettive in tal modo e calcolare i costi attesi, rimborsabili e non, aiuta il cliente a comprendere quale sia il reale, presente e netto valore della controversia, per poi al possibile risultato che può ottenere con un eventuale accordo in mediazione. Questo background mi aiuta, inoltre, ad apprezzare quali possano essere delle possibilità creative nelle situazioni in cui le parti ed i loro avvocati spesso considerano come unica soluzione possibile una sentenza, come ipotesi di licenza o di joint venture nelle dispute relative alla violazione o alla validità di un brevetto.
Dato forse ancor più importante, considero che la pratica della mediazione, con l’adozione delle tecniche di negoziazione basata sugli interessi, significhi tralasciare una parte dell’esperienza da avvocato, poiché questa attività certamente richiede uno stile totalmente differente da quello di un legale. Essere capaci di parlare la lingua dell’avvocato aiuta ma rimane essenziale l’essere in grado di aiutare le parti, i veri decisori, a vedere modi ulteriori che possano considerare come soddisfacenti.
Mi rende perplesso che alcuni avvocati vedano la negoziazione basata sugli interessi come un approccio “morbido” che non permette di vincere con la stessa forza che invece consentirebbe una negoziazione posizionale. Attraverso il mio lavoro come mediatore, trovo che si possa permettere agli avvocati di vedere le cose diversamente e di riconoscere che la negoziazione “di principio” li può aiutare a raggiungere obiettivi che incontrano veramente gli interessi dei loro clienti, e sono più durevoli.