CHI HA PAURA DELLA MEDIAZIONE?

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Sul sito web del Ministero della Giustizia si proclama che “La riforma della mediazione civile ha come obiettivo principale quello di ridurre il flusso in ingresso di nuove cause nel sistema Giustizia”.

Sarebbe peraltro a dir poco velleitario pensare di risolvere il grave problema dell’inefficienza della giustizia civile con la sola mediazione, perché tale istituto è – tra le altre cose – un “test di realtà” che per funzionare ha bisogno di un processo civile efficiente, venendo diversamente a mancare un importante incentivo per le parti a perseguire in modo fattivo e responsabile un accordo.Chi_ha_Paura_della_Conciliazione

Tra gli addetti ai lavori, invece, costituisce percezione diffusa quella secondo cui l’obbligatorietà della mediazione sarebbe stata imposta dal legislatore nella convinzione che tale misura risolverebbe di per sé sola tutti i mali della giustizia civile, quasi per magia e senza alcuna necessità di attuare altri interventi né mobilitare ulteriori risorse.

L’ostilità del ceto forense nei confronti dell’istituto è poi rafforzata dal fatto che in tale ambito non risulta previsto l’obbligo di patrocinio a carico degli interessati, i quali possono quindi decidere di fare a meno dell’assistenza di un legale, ove la ritengano superflua nel caso di specie.

Un primo effetto della diffusa percezione anzidetta è stato purtroppo quello di restringere la discussione pubblica in buona sostanza alla sola misura dell’obbligatorietà, così trascurando di considerare l’ampiezza dell’orizzonte in cui occorre inserire la mediazione, il cui approccio al conflitto ha valore universale ed è applicabile ad ogni relazione tra persone o gruppi indipendentemente dalla natura giuridica o meno della controversia, così da consentire di perseguire in definitiva la migliore qualità di qualunque rapporto, cosa di cui oggi in Italia c’è davvero bisogno.

La discussione incentrata esclusivamente sull’obbligatorietà sancita per legge sembra altresì aver fatto perdere di vista la potenziale utilità dell’istituto per gli avvocati nello svolgimento della loro attività, facendo dimenticare come la mediazione sia uno strumento di risoluzione delle controversie che si affianca al processo civile – ove ci si affida alla decisione autoritativa di un Giudice terzo – coadiuvando le parti nel risolvere in modo autonomo e responsabile il loro contenzioso e senza in alcun modo escludere a priori la partecipazione degli avvocati, molto spesso richiesta in quanto opportuna, anche se non imposta.

In estrema sintesi, la funzione degli avvocati consiste nell’occuparsi dietro compenso dei problemi loro sottoposti dai clienti, che a propria volta si rivolgono ai legali richiedendo la loro assistenza allo scopo di ottenere la soluzione effettiva di tali problemi.

Ancorché tale soluzione effettiva non dipenda solo dal loro impegno professionale, cui non può così corrispondere alcun obbligo di risultato in senso tecnico, non v’è chi non veda come comunque gli avvocati abbiano tutto da guadagnare da un’amministrazione efficiente della giustizia, tanto più che il ceto forense costituisce il punto di contatto immediato tra i cittadini e tale amministrazione, finendo così spesso per venire oggettivamente identificato con le sue disfunzioni, a dire il vero in modo ben poco generoso.

In tale situazione risulta così innanzitutto paradossale che, a fronte di un arretrato ammontante a circa cinque milioni e mezzo di cause pendenti all’inizio del 2012, l’avvocatura si opponga ad uno istituto quale la mediazione, introdotto con finalità apertamente deflattiva.

I primi a subire invero un effettivo pregiudizio dall’eccessivo numero di cause sono proprio gli avvocati stessi, la cui funzione concreta risulta frustrata dalle inefficienze dell’ordinamento che finiscono per disincentivare i cittadini dal rivolgersi ai legali onde instaurare nuovi giudizi, ancorché meritevoli in astratto di essere coltivati, senza contare che un ordinamento inefficiente nella tutela dei diritti disincentiva gli investimenti produttivi e dissuade in generale i cittadini dall’intraprendere qualunque attività, con una ricaduta negativa in termini di mancate opportunità su tutto il sistema, di cui anche il ceto forense costituisce certamente parte.

Nemmeno va poi trascurato che la mediazione costituisce uno strumento efficace per gestire qualunque vertenza, quindi anche per coltivare e far emergere un contenzioso di non elevato valore, attualmente trascurato quando risulti antieconomica l’azione giudiziaria per gestire la singola posizione di un utente o consumatore, ma che si presta ad essere gestito nella sede conciliativa, magari presso un’autorità indipendente, anche in modo seriale e con il possibile intervento di legali nel ruolo di mandatari delle parti.

Nella prospettiva suddetta, ad esempio, la mediazione viene già oggi utilizzata con buoni risultati avanti i Corecom (Comitati Regionali per le Comunicazioni) istituiti presso l’AGCOM (Autorità per le Garanzie nelle Telecomunicazioni) ed in futuro tale pratica potrebbe venire estesa ad altri settori e ambiti, come l’azione collettiva “di classe” prevista dal Codice del Consumo e che appare costituire terreno elettivo per la mediazione, quale strumento utile per raggiungere tra le parti una quantificazione concreta dei danni magari già accertati dal Giudice in linea di principio.

In definitiva e al di là degli esempi specifici di cui sopra, la mediazione civile costituisce uno strumento messo dal legislatore a disposizione degli avvocati per tutelare al meglio gli interessi dei loro assistiti, che – come già accennato – si aggiunge al giudizio civile senza escluderlo e può essere utile per razionalizzarne l’utilizzo e le risorse, in un’ottica di sussidiarietà.

L’assistenza alla parte in mediazione risulta invero complementare per l’avvocato rispetto alla funzione di difesa in sede giudiziale, che integra senza alcuna incompatibilità poiché una negoziazione in via riservata nella prospettiva di mettere a fuoco – a 360 gradi – fatti e reali interessi di tutte le parti, gestendone altresì gli aspetti personali ed emotivi, lungi dal compromettere la difesa efficace in giudizio ove non si raggiunga un pur auspicabile accordo, se consapevolmente gestita può essere di notevole ausilio per l’avvocato nell’impostare la eventuale successiva causa.

Dal punto di vista dell’avvocato nemmeno va del resto trascurato che un accordo conciliativo raggiunto ad esito di una mediazione, in tempi brevissimi rispetto al giudizio e nei termini non imposti da un terzo ma concordati secondo i loro specifici interessi dalle parti con l’assistenza dei loro professionisti, significa avere un cliente soddisfatto del risultato concreto conseguito, con la verosimile conseguenza pratica di ottenere velocemente un compenso non certo inferiore – quanto meno in proporzione – di quello ottenibile dopo una lunga causa dall’esito incerto.

A fronte di questo stato obbiettivo di cose duole vedere come, a parere di chi scrive per un difetto di chiarezza nell’informazione e nel pubblico dibattito, da un lato molti avvocati stiano perdendo l’opportunità di utilizzare la mediazione per gestire la loro attività professionale in modo più proficuo mentre, dall’altro lato, gli organi rappresentativi del ceto forense oppongano al nuovo istituto un atteggiamento di pregiudiziale avversione ed ostruzionismo.

Tale atteggiamento, che tra l’altro al comune cittadino potrà sembrare ispirato ad un riflesso quasi pavloviano di chiusura corporativa, oltre ad indebolire le fondate richieste dell’avvocatura in tema di organizzazione e mezzi da dedicare alla giustizia indipendentemente dalla mediazione, sta facendo perdere agli avvocati l’occasione di dimostrare in concreto che la loro funzione è quella di perseguire la risoluzione effettiva dei problemi dei propri assistiti – se del caso anche in giudizio – e non di sfruttarli approfittandone, come spesso si sente purtroppo più o meno velatamente suggerire dai detrattori della categoria.

di Riccardo Maggioni