di Nicola Giudice
Tra le tante sensazioni raccolte in questi 11 mesi di esperienza, voglio qui riportarne due, tra loro solo in apparenza contradditorie.
La prima riguarda il “dover mediare”. Non occorreva essere esperti in gestione del conflitto per immaginare che sarebbe stato molto difficile mediare tra persone sedute al tavolo perché obbligate. Il d.lgs.28/2010 ha creato una sorta di piano inclinato sul quale le parti -l’istante perché costretto dalla legge, l’invitato perché motivato un sistema di norme- si trovano a “doversi” incontrare. La differenza rispetto ad un contesto “volontario”, dove si sceglie di confrontarsi in mediazione, è evidente, quasi fisicamente percepibile. Il contrasto è ancora più acuto quando il mediatore ritiene di volere esplorare il cd. campo delle alternative: in una normale mediazione, occorrerebbe domandare se la parte ha valutato l’opportunità di un giudizio, in una mediazione obbligatoria la parte in giudizio già ci si trova (se non ha ancora depositato l’atto di citazione è molto probabile che l’abbia già predisposto). Il percorso concettuale è esattamente opposto: da “vado in mediazione e, se va male, in giudizio” al “vado in giudizio ma, prima, passo dalla mediazione”. Una sorta di tappa da gioco dell’oca, che la parte spesso vive con sofferenza, come una perdita di tempo ed un aggravio di costi.
La seconda riguarda il “poter mediare”. Mi riferisco alla possibilità, data alle parti, di avere l’occasione, unica e irripetibile -parole che ho sentito più volte riferire da molti e più spesso da Stefano Pavletic che qui ringrazio per lo spunto- di poter discutere, confrontare, ragionare, mettere a fattore comune le risorse e dunque negoziare, inteso nel senso più lato e positivo dell’azione, nelle migliori condizioni possibili. Questa seconda condizione coglie di sorpresa proprio coloro che, “costretti al tavolo”, si accorgono che forse questa sosta, forzata e indesiderata, può diventare la via d’uscita inaspettata da una spirale viziosa e pericolosa.
Mi pare che l’obbligatorietà possa essere percepita, sotto questa luce, come una sorta di terapia del conflitto: abituare le parti ad utilizzare la mediazione in modo che possano apprezzarne, con il tempo, i benefici. Se questo è vero, allora l’obbligatorietà potrebbe essere considerata una cura transitoria, fino a quanto il paziente non sarà in grado di utilizzare la mediazione in modo autonomo, sena costrizioni.