Intervista con Charles Middleton-Smith

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Charles Middleton-Smith di Corrado Mora

La formazione e la pratica di un mediatore passano attraverso la familiarità con un numero di tecniche e strumenti, da adottare opportunamente secondo le circostanze. Questa parte delle competenze del mediatore è talvolta trattata in modo analitico, quasi scientifico. Il che permette di approfondire le tecniche, ma rischia di tralasciare un elemento che ne è invece la premessa necessaria: il rapporto con le parti. Non è difficile verificarne la necessità; ben più complesso è invece comprendere come favorirlo, svilupparlo e renderlo centrale in ogni momento della mediazione, anche in quelli più tesi. Charles Middleton-Smith, dall’alto della sua vasta esperienza come mediatore e formatore, in questo ambito offre notevoli spunti –anche pratici, ma mai superficiali. Arrivando a toccare un argomento affascinante, che emerge spesso parlando di mediazione: l’istinto del mediatore.
Charles Middleton-Smith è affidabile nell’affrontare con calma, autorevolezza e ottimismo le inevitabili sorprese del processo di mediazione. Ricerca attivamente nuovi spunti per la negoziazione, strategie di chiusura delle distanze ed opzioni di mediazione. Charles descrive il suo stile come incentrato sul dare priorità agli aspetti commerciali, al futuro ed alla realtà, al momentum, allo humour, alla cortesia ed alla flessibilità.
Con più di 25 anni di esperienza commerciale, Charles continua ad essere nominato in un’ampia gamma di contesti commerciali e legali, con un valore che varia tra i £50.000 e i £100.000.000.
Dal 1991 al 2007, Charles è stato partner di Hammonds a Londra e, al contempo, mediatore, ed è attualmente il loro consulente sugli ADR. Si concentra ora sul suo interesse principale e sulla sua pratica di successo di mediatore, ricevendo giudizi eccellenti da molti anni. Charles è formatore in tecniche di mediazione con Facilit-8.

In ogni mediazione vi sono numerosi interventi, molto delicati e difficili, che il mediatore deve scegliere se e come compiere per assistere le parti e gestire efficacemente la procedura. Test della realtà ed Avvocato del Diavolo sono alcuni di questi esempi. Mentre molti mediatori si affidano semplicemente all’applicazione di alcune tecniche, il tuo approccio riconosce all’istinto ed al rapporto un ruolo fondamentale. Charles, come crei e sviluppi il tuo rapporto con le parti?

Innanzitutto, non considero la materia del contendere, quanto chi sono le persone coinvolte nella controversia. Questo viene prima di ogni altra cosa, e include gli avvocati che assistono le parti come le parti stesse. Guardo i loro profili, i loro siti Internet. Questo è il primo passo nella creazione di una accurata, ma non valutativa, immagine del panorama in cui mi troverò a lavorare.
La mediazione è, per me, primariamente un’attività interpersonale, in cui entrano in gioco tutte le dimensioni della controversia – ossia quella legale (razionale ed analitica), quella emotiva in sé, quella fisica.
Il mio primo contatto è volto a rendere prioritario il fornire – ma non direttamente – a tutti questi aspetti un luogo sicuro in cui lavorare, riducendo quei freni alla presa di decisioni che nascono dall’incertezza.
Se posso stabilire una connessione telefonica con gli avvocati, so di iniziare a creare un senso di confidenza in ciò che andrò a fare, so che l’inevitabile innalzamento di difese evaporerà, e che la stessa confidenza potrà poi essere trasmessa alle parti prima di incontrarle il giorno della mediazione.
Questo contatto telefonico non deve concentrarsi sulla richiesta di informazioni legali, ma su domande per capire “Cosa sta accadendo?”. Queste domande portano normalmente importanti informazioni sulle dinamiche che esistono tra le parti della controversia, sulla storia, su ciò che non è andato bene, sui punti in cui si potrebbero annidare le emozioni da convogliare nella mediazione. Allo stesso tempo, cerco di rendermi conto delle relazioni tra gli avvocati – ossia se sono competitive, collaborative, avversariali, ecc..
Mi preparo per la giornata nel modo che risulta conseguente alle precedenti attività. Mi creo una vaga aspettativa su chi io stia per incontrare, senza mai darlo per scontato, e controllo attentamente il mio comportamento nei confronti di questi pensieri quando incontro le parti per la prima volta.
Va da sé che la preparazione di se stessi è di fondamentale importanza per essere in grado di irradiare la competenza e la confidenza che le persone apprensive devono sentire. Ciò porta la mia attenzione sul cibo e sul riposo, sul metodo ed il modo di vestire, sulla presentazione personale e sulla postura. Si dice spesso che si viene giudicati nei primi minuti in cui si incontra qualcun altro, e cosa potrebbe essere più importante per un mediatore nel la creazione di rapporto?
Spesso di me si dice che sono bravo con lo humour, e i suoi effetti benefici nella costruzione del rapporto non possono essere esagerati – ma si tratta comunque di una verità lapalissiana.
Nello sviluppare il rapporto è essenziale notare tutto ciò che sta emergendo, sapendo che non può essere anticipato. Questo vale per tutte le persone nella stanza in cui sto lavorando, non solo per quelle a cui sto parlando o che sto ascoltando. La miglior indicazione del fatto che il rapporto è stato creato o mantenuto con successo è per me impossibile da vivere….si tratta della natura degli scambi tra le persone con cui mi sono intrattenuto in una sessione privata dopo che ho lasciato la stanza! La natura dei saluti al mio ritorno è, comunque, un utile indicatore…

Dall’altra parte, c’è l’istinto. La tua esperienza è vasta e, ne son certo, gioca un ruolo importante in esso. Cos’altro può favorire l’emersione dell’istinto del mediatore?

Grazie per farmi affrontare questo argomento. Di recente un partecipante ad un corso per mediatori mi ha chiesto se le competenze di un mediatore vengono dalla “natura” o dalla “coltivazione”; in altri termini, se non le hai dalla nascita puoi acquisirle? Ciò è rilevante nella nozione di istinto, che implica che il mediatore efficace reagisce ad ogni data situazione in modo appropriato, senza pensare alla “tecnica” o allo “strumento” adeguati. Ipotizzare questo, e dire che uno sta agendo unicamente d’istinto, sarebbe secondo il mio punto di vista una mossa decisa verso l’arroganza.
La mia risposta a questa persona è stata di ritenere che tutto venga principalmente dalla “coltivazione”, ossia dall’apprendimento e dalla pratica. Ciononostante, ho detto, ci sono alcune persone che, dinnanzi alla formazione per mediatori, arrivano a riconoscere che forse non fa per loro! Ammiro gli avvocati che praticano da molto tempo che, quando hanno una consapevolezza di sé tale da realizzare questa consapevolezza, acconsentono all’operazione di neurochirurgia necessaria per iniziare l’apprendimento.
Giunto a questo punto, come si sviluppa l’istinto? Risposta semplice: facendo attenzione! Tramite la pratica, apprendendo come i tuoi istinti normalmente ti muovono e notando ciò che pare essere più o meno efficace. Si realizzerà presto che ciò che è al lavoro non è una forma di decisione analitica e razionale su come reagire ad una situazione, quanto invece una reazione autentica, genuina rispetto a chi sei – e chi sei è quella persona che è stata coltivata con la formazione e la pratica.
Il che ci rimanda al rapporto – esso non si otterrà comportandosi differentemente da chi si è, o gironzolando sui soliti cliché, quanto rendendo la propria preparazione e la propria presenza personali.
C’è nonostante tutto una tensione tra la nozione di istinto e quella di comportamento conscio e attento: in ogni caso, la soluzione di questa tensione, seppur ammiccante al paradosso, è assolutamente possibile quando il mediatore sta lavorando bene.

Ogni mediazione è differente e si concentra su elementi diversi (o sui medesimi, ma in modo differente). Se dovessi riferirti ad alcuni parametri generali, cosa potrebbe indicare, a tuo parere, che il mediatore sta lavorando in modo efficace?

Questa domanda mi ricorda quelle che le parti o i potenziali clienti spesso pongono – “Come il mediatore misura il successo?”, o anche “Qual è la tua percentuale di raggiungimento di accordo?”.
Normalmente riesco ad essere fermo nelle mie risposte: il raggiungimento dell’accordo ha poco a che fare con questo. Oserei suggerire che la stessa cosa si possa applicare alla tua domanda circa l’efficacia dell’opera del mediatore. La ragione sta nel fatto che il mediatore non deve dimostrare di essere interessato al fatto che le parti si accordino, poiché farlo significherebbe rischiare che le parti gli passino tutta la responsabilità liberandosene le mani, mentre dovrebbe restare proprio lì. O nel dire che il mediatore misura il successo unicamente in relazione a quanto abbia dato alle parti la miglior opportunità per accordarsi.
Quindi, come si misura un mediatore dalla prospettiva dell’efficacia? Ecco alcuni pensieri. Come si potrebbe sospettare da quanto sopra, questo ha poco a che fare con un approccio “strumenti dalla cassetta degli attrezzi”!
Come si sentono le parti dopo aver incontrato privatamente il mediatore all’inizio della giornata, rispetto a come si sentivano appena arrivate?
A quel punto, gli avvocati stanno sentendo che è possibile abbassare un po’ il muro di protezione eretto attorno al loro cliente?
Dopo la conversazione pre-mediazione, tutti si sentono preparati?
Durante il giorno, si sentono tutti fisicamente confortevoli? E’ spuntato qualche sorriso o dello humour?
Sentono che il mediatore presta attenzione? Che è presente?
Entrando in una sessione privata, com’è ricevuto il mediatore? Sembra che le persone accettino ciò che il processo ha di utile per permettere la continuazione o la creazione ci una conversazione con il loro opponente?
Quando il mediatore parla, qualcuno nella stanza annuisce con la testa, d’accordo con ciò che il mediatore sta facendo?
Quanto spesso al mediatore è permesso di rimanere nella stanza mentre una parte sta decidendo la sua prossima mossa?
Le parti prendono decisioni in tempo per far sì che l’altra parte si senta coinvolta?
Le offerte sono credibili? Le parti sono consce della necessaria reciprocità dei comportamenti? Il mediatore mette alla prova le posizioni che potrebbero produrre più problemi che benefici se trasmesse all’altra parte?
Il mediatore sta disinnescando o dissipando o neutralizzando emozioni negative come mancanza di fiducia, accusa, rabbia, senso di ingiustizia?
Tutti vengono ascoltati?
Risposte positive alle domande precedenti danno alcune idee sull’efficacia di ciò che sta accadendo, dal mio punto di vista. Riscontri indipendenti che ricevo variano da, ad esempio, “ha una calma zen” (!), e presente con il suo intervento; quindi, mi pare che il mediatore debba reagire – sì, istintivamente – alle necessità del momento singolo. E’ chiaro, nessuno ha successo in tutte le situazioni, ma fare attenzione a ciò che sta nascendo in modo non valutativo, oltre che alle proprie reazioni, produce una buona media.

Il tuo approccio pare essere molto più flessibile ed interiorizzato dell’approccio “strumenti dalla cassetta degli attrezzi” che hai menzionato. E credo sia maggiormente connesso alla natura essenzialmente mutevole di ciò che può accadere durante una mediazione. Ciononostante, le difficoltà possono emergere comunque. Charles, quali sono nella tua esperienza le situazioni più difficili in cui sei stato coinvolto come mediatore, e come il tuo approccio ti ha aiutato?

Una sfida difficile la si può vivere quando una parte indica confidenzialmente di non essere assolutamente sicura delle conseguenze dell’accordo proposto. La domanda, quindi, che nasce per il mediatore è: è per me necessario procedere con un accordo che debba “tenere”? So che alcuni mediatori sentono un senso di responsabilità su questo punto. In ogni caso, nel primissimo caso commerciale che ho trattato questa situazione è emersa. Mi sono preoccupato per un po’ – ricorda che a questo punto vestivo ancora il mio “cervello da avvocato”  – ma il mio istinto mi ha detto che, poiché le parti erano propriamente assistite – cosa che normalmente avviene nelle controversie commerciali che tratto, spettava a loro misurare rischio e ricompense, non a me. Così non sono intervenuto nel flusso della negoziazione.
Forse non è una sorpresa, ma le situazioni difficili di cui parli suscitano ricordi dei miei primi casi. Con l’esperienza arriva una pelle più spessa. Un altro esempio dal periodo iniziale: ricordo una sera dopo un giorno pesante con parti difficili ed economicamente sbilanciate. Un imprenditore bullo con una squadra di accoliti ed un opponente che doveva scappare dal rischio di una causa, altrimenti sarebbe stato rovinato. Non avevo ancora sviluppato le tecniche essenziali per gestire le mie stesse reazioni, e presumibilmente ho richiesto alla prima parte di essere “ragionevole”, cosa che ovviamente non aveva intenzione di essere. Così mi sono inconsapevolmente lasciato trasformare in un altro bersaglio dei suoi comportamenti da bullo, ai quali, senza alcuna intenzione o processo razionale da parte mia, istintivamente ho risposto attraverso una severa critica verbale dinnanzi ai suoi sostenitori. E’ indubbio che questa possa essere considerata come una strategia ad alto rischio, ma ha avuto successo e la discussione è continuata fino ad una conclusione con considerevole ma bilanciata insoddisfazione di entrambe le parti – senza dubbio un cattivo risultato!
Credo che i mediatori efficaci non debbano avere paura del rischio. A volte è calcolato, a volte è istintivo. Gli elementi del rischio e della creatività sono ciò che mi hanno portato inizialmente alla mediazione, a differenza di altre forme di risoluzione della controversia, e sono ciò che mi mantiene fresco ed entusiasta dopo qualcosa come 12 anni di questo lavoro.