Intervista a Kimberlee Kovach

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kimberlee-kovach di Corrado Mora

Pubblichiamo una nuova intervista ai protagonisti della mediazione, grazie al prezioso contributo di Corrado Mora, ormai stabile collaboratore di questo blog. Oggi è il turno di Kimberlee Kovach, ovvero più di trent’anni di esperienza come docente, formatrice e professionista di alto livello.
In passato è stata presidentessa della Sezione Dispute Resolution dell’American Bar Association, come della Sezione ADR del State Bar of Texas.
La professoressa Kovach ha tenuto numerosi corsi di ADR per la formazione professionale legale nel corso di più di vent’anni, ed è autrice di un testo per le law schools, MEDIATION: PRINCIPLES AND PRACTICE (3rd ed. 2004). E’ anche autrice di MEDIATION IN A NUTSHELL (2nd ed. 2010).
Ha inoltre pubblicato numerosi articoli per riviste di diritto, capitoli di libri, come brevi articoli su svariati argomenti relativi ai metodi di ADR.
Ha una fervente attività come relatrice in tutti gli Stati Uniti ed all’estero, ed è mediatrice, arbitro e formatrice.
E’ attualmente direttrice del Frank Evans Center for Conflict Resolution e  Distinguished Lecturer in Dispute Resolution presso il South Texas College of Law.
Il background di Kimberlee Kovach la pone in una posizione di vertice per descrivere la situazione della deontologia in mediazione in generale e negli Stati Uniti.
E’ un argomento molto importante, poiché direttamente connesso alla protezione delle parti, così come alla salvaguardia della professione stessa. Alcuni aspetti deontologici sono, in qualche modo, auto-applicanti: le parti e i loro assistenti possono comprendere chiaramente se un mediatore tende a propendere per una delle parti o se ha un interesse personale nella controversia, oppure se – autonomamente, o all’interno di un Organismo di mediazione – applica tariffe inadeguate.  Di conseguenza, possono compiere le scelte più opportune. Ciò non è, però, abbastanza ed il problema dell’individuazione ed attuazione delle regole deontologiche rimane una ferita scoperta (la situazione negli Stati Uniti sembra abbastanza generalizzabile, relativamente a questo punto).
La tutela delle parti dipende altamente anche dalla qualità di un passaggio fondamentale: mettere la teoria in pratica. Ciò può essere delicato quando la teoria consiste nel lasciare la responsabilità del contenuto alle parti, e la pratica nel test della realtà. L’approccio di Kimberlee è efficace, continuate a leggere!

Si ricorda che la presente intervista è la traduzione di quanto pubblicato sul blog caucusonmediation.com)

La formazione di un mediatore spesso riguarda tecniche pratiche che, a volte, non vengono esplicitamente radicate in argomenti più generali. Ad esempio, l’approccio ad un elemento fondamentale come la deontologia nella mediazione è spesso limitato ad una serie di “cose da fare” e “cose da non fare”. Come consideri il ruolo dell’etica professionale nella mediazione?

La parte iniziale della formazione di un mediatore deve certamente considerare aspetti pratici del procedimento, affinché ai discenti sia permesso, al completamento del corso, di poter condurre delle reali mediazioni. Come per ogni professione, però, possono successivamente presentarsi alcune situazioni che si collegano alla deontologia. Tale problematica è particolarmente complessa da affrontare in relazione alla mediazione, poiché molti mediatori praticano anche un’altra professione, come ad esempio gli avvocati, i commercialisti o gli ingegneri. Nella maggior parte dei casi, queste professioni sono dotate di standard di etica professionale che i professionisti sono tenuti a seguire. Tali standard di condotta hanno spesso scarsa rilevanza nella mediazione. Per questo motivo, nei primi anni ’80 svariate organizzazioni, a livello locale e nazionale, hanno prediposto dei codici deontologici per mediatori.
Non credo che, al tempo, i mediatori – almeno, la maggior parte di essi – si comportassero in modo  deontologicamente scorretto, ma spesso si presentavano delle questioni problematiche, ed i mediatori (che erano soprattutto dei volontari) sentivano l’esigenza di una guida. Alcuni anni dopo si presentò un ulteriore fattore che, credo, contribuì ad amplificare l’esigenza di individuare e regolamentare alcuni standard di etica professionale. Svariati interrogativi si posero in relazione alla considerazione della mediazione come una professione autonoma. Una caratteristica comune, forse universale, di una professione è la propria auto-regolamentazione; nacquero così discussioni relative alla regolamentazione. I mediatori erano preoccupati che qualcun altro potesse intervenire, e così decisero di cercare di porre da sé i propri standard. La promulgazione di un Codice Deontologico fu vista da molti come un passo significativo in tale direzione.

Qual è lo “stato dell’arte” della tua regolamentazione deontologica nazionale, e come lo consideri? Trovi che qualche miglioramento sia auspicabile?

Nonostante molto sia stato fatto a livello locale, statale e nazionale, non c’è un intervento propriamente coordinato. La regolamentazione nazionale potrebbe essere considerata come ciò che viene comunemente definito  uno standard comune di condotta.  Ma prima un po’ di storia.
Nei primi anni ’90 tre organizzazioni nazionali, e specificamente l’ American Arbitration Association (AAA), la Sezione di Dispute Resolution dell’American Bar Association (ABA) e la Society of Professionals in Dispute Resolution (SPIDR) si riunirono per sviluppare un “codice deontologico nazionale”. Approvato dalle tre organizzazioni nel 1994, il documento è divenuto famoso come il Model Standards of Conduct for Mediators. Ho avuto il privilegio di essere co-reporter per quegli interventi, successivamente seguiti da revisioni e miglioramenti degli standard. Il modello rivisitato degli standard etici per i mediatori fu infine approvato dalle tre organizzazioni nel 2005 (da notare che la SPIDR era divenuta l’Association for Conflict Resolution-ACR).  Il codice può essere reperito sul sito internet dell’American Bar Association. Anche se molto è stato fatto in termini di attuazione, per molti versi questo codice rimane puramente di ispirazione. In altre parole, poiché non esiste alcuna organizzazione di monitoraggio, la concreta applicazione risulta problematica. Solo pochi Stati hanno attivato un procedimento disciplinare nei confronti di un mediatore. In tutti questi casi (tre o quattro, mi pare), poiché l’attribuzione delle competenze è garantita dalla corte suprema statale, i soli mediatori che possono essere sottoposti ad azione disciplinare sono coloro che operano nella mediazione delegata (in Inglese: court-related o annexed mediation. Per un utile definizione, si veda l’utile articolo di Chiara Catti). Non c’è ad oggi una regolamentazione per le mediazioni puramente private. Per questo la creazione di un meccanismo standard di attuazione delle regole deontologiche dei mediatori sembra essere il prossimo passo logico da compiere.

Kimberlee, da una prospettiva storica, come consideri l’evoluzione delle relazioni tra gli attori del sistema giudiziario (giudici, avvocati, parti) e la mediazione negli Stati Uniti?

In generale, è stata a volte una strada sterrata, altre una dolce navigazione. Essenzialmente, il rapporto tra il sistema legale e la mediazione è stato un continuo susseguirsi di vantaggi e sfide. Chiaramente ciò varia a seconda dei momenti e dei luoghi. La mediazione delegata si è sviluppata in modo differente nelle diverse giurisdizioni. In alcuni casi, i giudici rendono l’uso della mediazione obbligatorio, mentre in altri essa viene semplicemente suggerita.
Una sfida ha riguardato il grado di influenza ed impatto del sistema legale sulla mediazione. In alcuni casi, una concentrazione quasi esclusiva sulla natura legale della controversia e dell’accordo ha portato a situazioni in cui il potenziale della mediazione è andato perduto. In altri ancora, si sono osservate alcune difficoltà quando la comunità legale non ha compreso la natura della mediazione. La mediazione non è in grado di mantenere la sua promessa quando diviene troppo “legalizzata”. Quando gli individui divengono parte di una controversia e ricercano l’assistenza legale, il tutto viene “legalizzato”, ossia discusso e visto unicamente in termini di cause ed effetti giuridici. Il fatto è che a tale giuridicizzazione soggiace una controversia e la mediazione vuole assistere le parti, siano esse individui, imprese, multinazionali o istituzioni governative a risolverla. A volte, quando gli aspetti legali sono dominanti, si perde l’opportunità di trovare una soluzione  ed un accordo reali. D’altronde, quando l’attenzione si concentra sugli elementi del conflitto e sulle necessità e gli interessi delle parti, si creano opportunità per raggiungere diverse ed ulteriori modalità risolutive, che possono portare ad una soluzione creativa, innovativa. Il potenziale che la mediazione ha nell’assistere le parti, nel dar loro un’opportunità per essere ascoltati, per avere voce e poter ritagliare sartorialmente soluzioni che possano essere di (quantomeno sufficiente) soddisfazione per tutte le parti, è perso quando le uniche basi o argomentazioni sono gli elementi giuridici.
Allo stesso tempo, è pur vero che molti distretti giudiziari, negli Stati Uniti, sono stati “campioni” di mediazione. Di fatto, i giudici che in Florida e in Texas hanno iniziato ad imporre o suggerire alle parti la mediazione hanno dato avvio ad un cambiamento culturale, che ha portato oggi ad un uso quotidiano della mediazione in moltissime giurisdizioni in tutti gli Stati Uniti. Esistono oggi molti programmi che coinvolgono il settore giudiziario, e senza tali iniziative l’uso della mediazione sarebbe molto più limitato. Per questo, le corti hanno spesso, e notevolmente, favorito la diffusione della mediazione. Come molte relazioni, è probabile che questa continui a crescere ed evolvere.

Il tuo approccio al ruolo del mediatore è sempre stato chiaro, concreto ed ispiratore: le parti sono responsabili del contenuto, il mediatore è responsabile del processo. E’ una cornice interessante della profonda analisi della mediazione che hai condotto con il tuo “Mediation. Principles and Practice“. Secondo te, come dovrebbe agire concretamente un mediatore per mantenere un approccio facilitativo e rispettare tali responsabilità, particolarmente conducendo attività difficili come il test della realtà ed il coaching relativo alla negoziazione?

Sì, mi rendo di certo conto che sia molto più facile parlare di linee nette; ma non è sempre possibile mantenere la chiarezza in situazioni concrete. La specializzazione del mediatore è certamente quella di esperto del processo, poiché è colui che conduce e guida i partecipanti, gli avvocati ed i clienti attraverso il procedimento. D’altra parte, quando si tratta di considerare i compiti difficili, come hai notato, quando sono necessari approfondimenti ed analisi dei contenuti, la linea netta e chiara può sfumarsi un po’. Le parti hanno spesso necessità di condurre un test della realtà come assistenza nella loro presa di decisioni, qualora abbiano aspettative irrealistiche. Questa è una specie di ri-orientamento, che considera i contenuti o la situazione da una prospettiva differente. Se ciò viene compiuto soprattutto attraverso delle domande, allora il mediatore può rimanere più collegato al processo, pur tuttavia potendo far emergere delle informazioni che possano aiutare le parti a riflettere o a vedere le cose  in modo un po’ differente. Questo approccio differisce per molti versi dal più forzato ed aggressivo stile valutativo e propositivo. Se le domande e l’esplorazione sono fatti in modo diretto ed efficace, i mediatori possono aiutare le parti a intravvedere prospettive differenti. In conclusione, quindi, i risultati sono simili, ma ciò che differisce sono le modalità con cui il procedimento è attuato. In altre parole, i mediatori possono permettere una modellazione della conversazione sulla realtà piuttosto che imporne una alle parti. Relativamente all’assistenza nella negoziazione, vedo il ruolo del mediatore, in parte, come quello di un educatore. E’ quindi certamente appropriato e consono ad uno stile più facilitativo e ad un approccio più orientato al processo l’educare o il fare coaching alle parti sulla negoziazione. Emerge ancora come la mediazione possa essere spesso più efficace quando sollecita l’emersione delle informazioni dalle parti piuttosto che quando fornisce tutte le risposte.