Rapporto arbitrato / nuova mediazione

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L’Avv. Bossi presenta un’interessante e puntuale analisi del rapporto tra l’arbitrato e la mediazione, condotta alla luce del D.Lgsl 28/2010.

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Avv Alessandro Bossi

1. Il presente scritto intende investigare, senza pretesa di completezza, la relazione tra mediazione ed arbitrato che emerge dalle disposizioni del Decreto Legislativo 28/2010 (di seguito: “il Decreto”) sulla mediazione finalizzata alla conciliazione. 

E’ discusso in dottrina se questi due strumenti rientrino entrambi nella categoria dei metodi di risoluzione alternativa delle controversie, generalmente indicata con l’acronimo anglosassone ADR (Alternative Dispute Resolution). 

Si trova, ad esempio, affermato che: “ADR as a term covers the whole range of alternatives to litigation or arbitration which involve third-party intervention to assist resolution of a dispute. In some writings, arbitration is also referred to as part of ADR. It was, of course, the first well-developed ‘alternative’ to litigation” ([1]).

O anche, in ambito italiano: “I metodi di ADR comprendono sia strumenti noti da tempo, anche nei paesi di diritto scritto, o Civil law, secondo la terminologia britannica, come l’arbitrato (arbitration), se pure in forme non sempre coincidenti con le nostre, come nel caso dell’arbitrato non vincolante (non binding) o degli arbitrati tecnici, come l’adjudication o l’expert determination, sia strumenti nuovi, sviluppati in luoghi e situazioni diversi, talvolta per iniziativa ed inventiva di singoli giudici o avvocati” ([2]). 

La questione non sembra irrilevante perché, come noto, da diverse classificazioni  possono scaturire diverse conseguenze. Senza poter entrare in questa sede in particolare dettaglio, due osservazioni vengono spontanee.

La categoria dei metodi, o strumenti, ADR è atipica e quindi aperta a nuovi ingressi: si pensi, quanto al nostro ordinamento giuridico, a due istituti di non facile catalogazione quali la “risoluzione di contrasti sulla gestione di società”, disciplinata dall’art. 37 del D.to L.vo n. 5 del 2003, oppure il cosiddetto “arbitro bancario finanziario”, alla cui origine si trova l’art. 128 bis del Testo Unico Bancario (D.to L.vo n. 385 del 1993) ([3]).

Pertanto, è sostenibile una tesi secondo cui, in dipendenza della prospettiva assunta, l’arbitrato può o meno rientrare nel novero degli strumenti ADR: ciò posto, appare difficilmente contestabile che, quanto più l’arbitrato si avvicina alla giurisdizione statuale (ed in tal senso, per lo meno in relazione all’efficacia del lodo, va la riforma del 2006, cfr. art. 824 bis c.p.c.) tanto più la mediazione appare alternativa sia al giudizio ordinario sia a quello arbitrale.

2. Nel testo attuale del Decreto si trovano dei riferimenti all’arbitrato nell’articolo 5 (Condizioni di procedibilità e rapporti con il processo) e nell’articolo 13 (spese processuali).

Ai fini della presente trattazione, tuttavia, è utile comparare la versione definitiva del Decreto con la bozza dello stesso che circolò inizialmente (in appresso: “la Bozza”).

Nella Bozza, il citato articolo 5 si concludeva con un comma (n. 7) del seguente tenore: “Le disposizioni che precedono si applicano anche ai procedimenti davanti agli arbitri, in quanto compatibili”.  

Salva la valutazione di compatibilità, pertanto, si stabiliva che l’esperimento del procedimento di mediazione fosse condizione di procedibilità (per le materie indicate nel primo comma della disposizione) anche nell’arbitrato.

Nella versione definitiva, ufficiale, del Decreto il comma 7 è scomparso.

In applicazione del noto brocardo “ubi lex voluit, dixit; ubi noluit, tacuit”, se ne desume che il tentativo di mediazione non è obbligatorio rispetto al giudizio arbitrale.

Ci si può chiedere la ragione di questo mutamento d’idea del legislatore.

Un’interpretazione possibile è che in conclusione abbia prevalso una visione privato-contrattualistica dell’arbitrato ([4]), considerato quale strumento intrinsecamente lontano dalla giurisdizione, al quale non occorre sempre estendere quanto previsto per il processo statuale.

Se così fosse, la posizione assunta dal legislatore del 2010 nel Decreto parrebbe non collocarsi nel solco tracciato per la riforma dell’arbitrato nel 2006, a cui si è accennato sopra.

3. Se il comma 7 dell’articolo 5 del Decreto è scomparso nella versione definitiva, il comma 5 è stato modificato, facendo ora riferimento non soltanto al giudice ma anche all’arbitro.

Si disciplina, per la parte che qui interessa, l’ipotesi in cui un contratto, oppure uno statuto/atto costitutivo contenga una clausola di mediazione abbinata ad una clausola compromissoria.

Ci si trova in presenza, in altre parole, di una clausola bifasica o multi-step, secondo la terminologia anglosassone.

Ecco un esempio di come potrebbe essere una clausola siffatta: “Le parti sottoporranno le eventuali controversie derivanti dal presente contratto al tentativo di mediazione previsto dal Servizio di Mediazione della Camera Arbitrale di Milano.

Qualora il tentativo di mediazione non dia esito o non si concluda entro il termini di 120 giorni previsto dalla legge, tutte le controversie derivanti dal presente contratto saranno risolte mediante arbitrato secondo il Regolamento della Camera Arbitrale di Milano, da un arbitro unico nominato in conformità a tale Regolamento”.

In tale situazione l’arbitro, se il tentativo di mediazione non è stato esperito, su eccezione di parte proposta nella prima difesa, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione e fissa la successiva riunione arbitrale dopo la scadenza dei centoventi giorni previsti dall’articolo 6 del Decreto (nonché dalla clausola-tipo sopra indicata).

Nello stesso modo si agisce quando la procedura di mediazione è iniziata ma non conclusa.

Si noti, rispetto a quanto previsto nel primo comma dell’art. 5 del Decreto, ove si tratta del tentativo obbligatorio di mediazione, che il testè esaminato quinto comma non consente all’arbitro (o al giudice) di rilevare d’ufficio il mancato svolgimento della mediazione.

Una preoccupazione, per gli arbitri, potrà essere costituita dall’incidenza del periodo per lo svolgimento della mediazione sul termine per la pronuncia del lodo.

Se tale incidenza, infatti, appare accettabile rispetto ai tre/quattro anni di durata media di un processo ordinario, centoventi giorni rappresentano esattamente la metà dei duecentoquaranta giorni che l’art. 820, comma 2, c.p.c. assegna agli arbitri per la conclusione del procedimento arbitrale, a far tempo dalla accettazione della nomina.

Ciò, senza contare che sovente la convenzione di arbitrato (clausola compromissoria o compromesso che sia) prevede un termine anche inferiore a duecentoquaranta giorni.

Dal momento che le ipotesi di sospensione del procedimento arbitrale sono espressamente indicate dagli articoli 816 sexies e 819 bis c.p.c. (e questo caso non vi rientra), risulta consigliabile per gli arbitri ottenere dalle parti una proroga del termine per la pronuncia del lodo nella riunione stessa in cui, come sopra esposto, dispongono lo svolgimento della mediazione o la sua prosecuzione.

E’ appena il caso di ricordare che, ai sensi dell’articolo 816 bis c.p.c. come risultante dalla riforma del 2006, i difensori delle parti dispongono normalmente del  potere di proroga, salva espressa limitazione nella procura a loro conferita.

4. L’ultima disposizione del Decreto che rimane da esaminare, in relazione al tema, è l’art. 13.

La norma introduce un meccanismo sanzionatorio a carico della parte che abbia rifiutato la proposta del mediatore, nel momento in cui tale proposta coincida con il provvedimento che conclude il successivo processo.

Il primo comma della disposizione richiede l’integrale coincidenza tra proposta e provvedimento; il secondo comma, applicabile soltanto se ricorrono gravi ed eccezionali ragioni, ammette la conseguenza sanzionatoria anche qualora la coincidenza non sia puntuale.

La “sanzione” consiste nel mancato riconoscimento, parziale o totale, delle spese del processo, pur se la parte risulti formalmente vittoriosa.

Il terzo comma della norma, infine, stabilisce che, salvo diverso accordo delle parti, le disposizioni precedenti non si applicano ai procedimenti davanti agli arbitri.

La Relazione Illustrativa al Decreto commenta tale scelta come segue: “La disciplina dell’art. 13 non si estende agli arbitri, in quanto nel procedimento arbitrale il regime delle spese è peculiare e non è ravvisabile la necessità di scongiurare l’abuso del processo. Restano peraltro fermi diversi accordi delle parti”.

Non è agevole comprendere cosa si intenda con tali affermazioni.

Forse, parlando di “peculiarità” del regime delle spese nel procedimento arbitrale si vuol far riferimento alla prassi, ancora abbastanza diffusa quantunque opinabile, di compensare le spese a prescindere dalla soccombenza più o meno marcata di una delle parti.

Più chiara appare la seconda asserzione, relativa alla non necessità di scongiurare, nel procedimento arbitrale l’abuso del processo.

Il ragionamento sembra questo: dal momento che l’arbitrato è processo privato, tra l’altro essenzialmente più breve del processo affidato alla giurisdizione ordinaria, non vi è in esso l’esigenza di tutelare un pubblico interesse alla sua speditezza e all’assenza di adempimenti inutili.  

Se questa è la ratio, essa non appare del tutto condivisibile.

L’abuso del processo non colpisce soltanto l’amministrazione della giustizia, ma anche una o più parti processuali, e ciò resta vero anche in ambito arbitrale.

Peraltro, l’attuale dettato dell’art. 91 c.p.c., come modificato dalla legge 69/2009, consente agli arbitri di ottenere effetti analoghi, anche se non coincidenti, con quelli previsti dall’art. 13 del Decreto, così riducendo la portata limitativa del terzo comma della disposizione medesima ([5]).

5) Voler formulare alcune considerazioni conclusive sull’argomento significa ritornare, circolarmente, alla distinzione tra mediazione ed arbitrato.

La prima, quale modalità di soluzione autonoma del conflitto, appare effettivamente alternativa sia al processo ordinario sia al processo arbitrale. Quest’ultimo, infatti, più che alternativo alla giurisdizione ordinaria risulta sostitutivo della stessa, rimanendo entrambi strumenti eteronomi di risoluzione delle controversie.

Trattandosi di metodi così diversi, sia per contenuti che per fini, viene spontaneo consigliarne l’adozione abbinata, in successione, come previsto dalle clausole bifasiche di chi si è parlato supra.

Tuttavia, non si può ignorare la posizione di coloro che, per svariate ragioni, preferiscono evitare il ricorso alla mediazione.

Come risulta dalle disposizioni che si sono esaminate, costoro potranno ottenere tale effetto, anche nelle materie per cui è previsto il tentativo obbligatorio ex art. 5 Decreto, se sceglieranno mediante clausola arbitrale o compromesso l’arbitrato piuttosto che il ricorso al giudice statuale.

Di Alessandro Bossi

Avvocato in Milano, arbitro e mediatore.          


([1])  D. RICHBELL, The CEDR Mediator Handbook, Gran Bretagna, 2000, p. 7.

([2] ) M.  MARINARI, in AA.VV., La via della conciliazione, MI, 2003, pp. VIII e IX. 

([3] ) Sia consentito, in merito, rinviare ad A. BOSSI, L’arbitro bancario finanziario, ne Il Civilista, MI, Maggio 2010, p. 51 e ss.  Vedasi inoltre:  F. ROSTI, L’arbitro bancario finanziario, in questo stesso Blog, 2010.

([4])  La dottrina italiana è tradizionalmente divisa sulla natura dell’arbitrato: ai sostenitori della teoria contrattualistica (tra cui: FAZZALARI, GIACOBBE, PUNZI) si contrappongono i fautori della teoria giurisdizionalista (tra cui: COMOGLIO, CONSOLO, RICCI).  Per un’analisi delle due posizioni ed un tentativo di sintesi vedasi  S. LA CHINA, L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, MI, 2007, p. 18 e ss.

([5]) Sarà sufficiente, a tale scopo, che la parte a ciò interessata depositi nel processo arbitrale la documentazione da cui risulti la proposta del mediatore e le posizioni assunte dalla parti nei confronti della stessa  (cfr. art. 11 Decreto), chiedendo in sede di conclusioni l’applicazione dell’art. 91, primo comma, c.p.c.