Conciliazione: è sbagliato il nome o il marketing?

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Durante l’incontro organizzato lo scorso novembre dalla Camera Arbitrale di Milano dal titolo “Conciliazione: oltre i confini, oltre il conflitto”, a cui ho avuto il piacere e l’onore di prendere parte, sono state esposte una serie di cifre sulla conciliazione, stimate e reali, che mi hanno fatto pensare. Partiamo dal dato spagnolo, o meglio catalano, visto che da qualche mese ho la fortuna di poter svolgere la mia attività professionale anche a Barcellona. 

Le conciliazioni in ambito familiare censite nel 2009 dal centro del governo locale catalano (Centro de Mediación de la Generalitat de Catalunya) che controlla fra le altre cose i requisiti per l’iscrizione all’albo dei conciliatori, arrivano a qualche centinaio di casi (per la precisione: 564 ad ottobre 2009). Dato sicuramente non insignificante, ma da analizzare non solo rispetto alle migliaia di casi giudiziali che interessano ogni anno i Tribunali della “Comunidad Catalana”, quanto e soprattutto alla luce dello sforzo, legislativo e scientifico, davvero notevole, oltre che lodevole, fino ad oggi profuso. Basti ricordare: il Codice Catalano di Famiglia che già nel 1998 prevedeva (primo esempio di legislazione spagnola al riguardo) la possibilità per il giudice di delegare a terzi il tentativo di conciliazione nelle controversie di separazione e divorzio; la Legge 1/2001 sulla mediazione familiare catalana, prima normativa delle varie Comunità spagnole a regolare il procedimento di conciliazione; il libro bianco sulla conciliazione pubblicato nel 2008, che è il risultato di un progetto durato diversi mesi e coordinato dal Governo Catalano, che ha visto impegnati professionisti ed esperti della materia nell’analizzare l’istituto davvero a 360 gradi. Ed infine la Legge Catalana 15/2009 sulla mediazione che, anche sulla spinta della Direttiva 52/2008, rinnova il procedimento di conciliazione, già disciplinato dalla Legge 1/2001, estendendolo anche alle controversie relative al diritto civile catalano (es. Diritti reali).   

 

Veniamo ora al dato italiano. Non c’è bisogno di sottolineare il considerevole numero di mezzi e di persone che ormai da quasi due decenni le Camere di Commercio stanno impiegando per diffondere la conciliazione. A cui voglio aggiungere, senza alcuna piaggeria, l’alta professionalità, la competenza e la passione offerta da coloro che gestiscono il servizio di conciliazione. Nonostante tutto questo però, anche a Milano credo si registrino “solo” qualche centinaio di domande ogni anno.

 

Eppure tutti coloro che lo conoscono sono affascinati dallo strumento e profondamente convinti delle sue immense potenzialità. Ed allora è forse giusto domandarsi il perchè di numeri che non possono e non debbono soddisfare. Domanda che a mio avviso ritorna di attualità proprio adesso, dopo l’approvazione del decreto legislativo sulla conciliazione, perchè se non troviamo in fretta una risposta adeguata, il tanto sbandierato “milione” di cause che dovrebbero passare con successo dalla conciliazione, rischierà solo di richiamare alla mente il noto tormentone politico a suo tempo legato a questa fatidica cifra!

 

In Spagna ad esempio quando parli di “mediación” ad un avvocato normalmente la reazione dell’interlocutore puó dividersi in due grandi gruppi. Coloro (e sono la maggioranza) che non hanno alcuna idea di ciò di cui si sta parlando, ma pur di non rimanere in silenzio (deformazione professionale di noi avvocati), fanno i commenti più disparati del tipo: – Ah sì, quella specie di arbitrato. Oppure: – La conosco benissimo, sono anni che troviamo accordi stragiudiziali in studio per i nostri clienti. E coloro che avendone una maggiore conoscenza, immediatamente la associano per le ragioni storiche prima accennate, esclusivamente all’ambito familiare. In entrambi i casi spesso la risposta è accompagnata da un sorrisetto di compassione nei confronti di chi ha proposto l’argomento!

 

In Italia il copione grosso modo si ripete. I commenti dei Colleghi sono assolutamente simili a quelli spagnoli, e molti avvocati associano irrimediabilmente la conciliazione, con il tentativo di conciliazione davanti al giudice. Facile immaginare il risultato finale.

 

In tutti i casi si pone evidentemente un problema di cultura della conciliazione. Ed allora viene da chiedersi se cambiare il nome all’istituto potrebbe aiutare, da un lato a suscitare un maggior interesse, e dall’altro ad evitare preconcetti errati. La provocazione è lanciata. Chi avesse voglia di raccoglierla può sbizzarrirsi proponendo il nuovo nome!  

 

Ma se il cambio del nome appare oggettivamente difficile da praticare, occorre forse battere un’altra strada, senza però attendere lo sperato effetto positivo del tentativo obbligatorio di conciliazione “allargato”.

Un saluto a tutti i lettori di questo blog.

Avv. Alessandro Pieralli, conciliatore del Servizio di Conciliazione della Camera Arbitrale di Milano